La City dei TartariÈ la finanza il campo di battaglia della terza guerra mondiale

È la finanza il campo di battaglia della terza guerra mondiale

“Let’s dance, to the song they’re playing on the radio”

David Bowie – Let’s Dance

Einstein aveva torto. La III Guerra mondiale non sarà nucleare, ma digitale e finanziaria. Il campo di battaglia sarà quella zona d’ombra, con molte più di 50 sfumature di grigio, dove si incontrano flussi di dati e di capitali. La disfida del futuro prossimo, se non del presente, è per il controllo dei dati che raccontano chi siamo, cosa preferiamo, quanto guadagniamo, come risparmiamo. Flussi di denaro che attraversano il mondo in un attimo, dove sarebbe interessante aggiungere a Google Maps un tasto che ci dica come mandare cento euro da un posto all’altro. Capiremmo tante cose, se potessimo vedere visualizzata questa mappa dei trasferimenti, dei cambi di valuta, della maniera con la quale, un po’ come i bagagli all’aeroporto, i soldi arrivano più o meno regolarmente a destinazione. Conti cifrati, numeri. Una matrice spaventosa e colossale, nella quale si nasconde la chiave del futuro.

Un tempo i capitali viaggiavano alla velocità dell’uomo, dei suoi mezzi di trasporto. I mercanti fiorentini osservavano ansiosi i loro corrieri partire, ben sapendo che delle due o tre navi di pezze o di argento, forse solo una sarebbe arrivata a destinazione, integra o senza aver dovuto esigere un costo esorbitante di dazi e tasse. Il famoso «un fiorino» di Benigni e Troisi ripetuto all’infinito. Oggi, la finanza viaggia a velocità assolutamente impossibili da concepire. Il trading è spesso automatizzato, non solo per gli operatori che immaginiamo come vampiri assetati di liquidità, ma anche per le persone normali, che possono vendere sui siti di trading on-line, appena un’azione arriva al prezzo voluto.

Ed in quell’ammasso di operazioni e di trasferimenti di denaro si nasconde, oggi, il segreto del benessere di un paese, di una regione. Chi controlla la liquidità controlla i mercati. Perché sarà sempre in grado di smuovere prezzi e distruggere/creare ricchezza. Non che prima non fosse così, ma oggi l’informatica e la sofisticazione dei sistemi e dei processi, nonchè la globalizzazione del settore della finanza, hanno creato uno sbilanciamento enorme fra l’economia fisica e quella digitale. Non uso la dicotomia reale/sintetica, perché in realtà tutto è reale. In fondo alla catena di futures sul petrolio, c’è sempre un operaio che mette barili di greggio su una nave, ci sono persone che mangiano, studiano e vivono, sui proventi di quella catena di contratti.

Questa guerra dei flussi di capitale, che ha spostato la ricchezza del pianeta sempre più verso nuove aree, leggasi Cina, Singapore, Medio Oriente, alcune repubbliche ex sovietiche, come il Kazakistan, il Brasile, viene combattuta in maniera sempre più esplicita, anche da banche centrali ed istituzioni internazionali. Con l’arma della regolamentazione finanziaria, della vigilanza bancaria. La finanza e la sua esuberanza hanno prima creato le condizioni per una crescita drogata dell’economia dell’Occidente ed ora è diventata un problema geopolitico. Una Guerra che si misura in termini di numero giornaliero di poste elettroniche con inviti a convegni e seminari, su temi ogni volta nuovi, da decifrare, su nuove leggi e nuove disposizioni su rischi operativi, derivati, collaterale, etc. Un trionfo di sigle ed acronimi, come Cva, Isda, Reg. 67bis-x. Nel mondo che osservo da vicino, nei 15 anni che lavoro nella City, la Financial Services Authority è stata scorporata e reinglobata nella Bank of England almeno due volte, con ogni volta un cambiamento delle sue mansioni e responsabilità.

I casi recenti di investigazioni su Libor, derivati e fondi per l’Iran sono solo tre esempi, forse più evidenti, di schermaglie e di contrasti, fra il fronte delle banche e degli operatori finanziari, che si vedono come inseriti in un contesto globale, dove dominano le leggi della giungla dei mercati (solo il forte sopravvive) e le condizioni imposte dalle autorità centrali, che non possono permettersi una mortalità di operatori finanziari e quell’indotto di persone e di lavori collegati. Le sedi tradizionali della finanza cercano di resistere all’attacco del “mondo nuovo”. E, soprattutto, c’è un fronte unico di tutto il settore, nel ricreare le condizioni di fiducia e di mutuo credito che sono alla base del sistema finanziario. Quindi, non una Guerra classica, fra due fronti, ma multipla, dove le parti opposte cambiano ogni volta.

Esiste una Guerra contro la crisi, basata sulla creazione di schemi di finanziamento, di fondi, dii agevolazioni fiscali, con caratteristiche diverse in ogni parte del pianeta, dalle PauperoBanks di Cameron, a proposte per incentivi fiscali in Francia. L’obiettivo è la rinascita del credito all’impresa, all’innovazione, ai giovani. Alle energie rinnovabili. Aree che un tempo godevano dei flussi di venture capitalist ora spesso in crisi di identità. Perché le banche, utilizzando i sistemi di rating sempre più omogenei, calcolano stechiometricamente il rischio di credito, abbandonando, soprattutto con uno spostamento dalla presenza sul territorio al digitale, la conoscenza locale di imprenditori. E non inserendo nelle loro computazioni il fattore entusiasmo. Che, in casi celebri, ha fatto nascere imprese importanti da cortili dietro casa. O giganti come Starbucks da una cafeteria di Seattle.

Esiste una crisi molto più ampia, finanziariamente parlando, che è il fronte della fiducia interbancaria, dove banche centrali e organismi internazionali lottano contro il costo del denaro, per mantenere la bestia che ha creato il tracollo del sistema, a livelli accettabili. E sostenibili. Le banche devono tornare a fidarsi mutualmente.

Esiste anche un fronte contro l’adulterazione del sistema finanziario,forse l’area più complicata. Si tratta di regimentare la finanza innovativa e cambiare le regole del gioco, capire quali sono le misure che possono rendere sostenibili le banche, senza comprometterne la capacità di finanziare l’economia. Le regole di Basilea hanno sicuramente avuto un effetto simile a quello del fondo di stabilità per il settore pubblico, dove risorse sono state accumulate per i cosiddetti rainy days. Ma l’esperienza recente ci ha insegnato che un’organizzazione complessa come una istituzione finanziaria può pianificare tutti gli scenari possibili, tranne quello che si manifesta. Questo spiega l’enfasi sullo stress testing, sulla pianificazione e sul risk management. Ben sapendo che quel che conta è avere un processo capace di cogliere i segnali di crisi e di instabilità, avere un piano B e forse anche C e D, rispetto ai vari eventi possibili.

Quel che trattiene liquidità nelle banche e non la riversa nell’economia è anche il meccanismo ostico delle collateralizzazioni delle operazioni derivate, dove i downgrade di molte istituzioni finanziarie europee ed americane hanno reso inutilizzabile una gran quantità di denaro. Sulla base di valutazioni del rischio previsto e futuro di operazioni derivate, che, come abbiamo visto nel caso di JP Morgan, spesso possono sfuggire ad ogni controllo. Il mercato dei derivati Over the Counter è di circa 300,000 migliaia di miliardi di dollari. Solo nel 2009, sono stati messi come collaterale circa 6000 miliardi di dollari. Cifre che si associano di solito alle distanze fra pianeti. Immaginate quale effetto avrebbe una moratoria anche parziale su queste somme, liberandole nell’economia fisica. What shall we do with all this useless beauty, direbbe Elvis Costello.

Esistono battaglie geopolitiche, più o meno manifeste, fra piazze finanziarie, per mantenerne l’egemonia. Come fra Londra, New York e Francoforte. La vittoria del governo inglese di avere Londra come una delle due basi fuori dalla Cina per il trading del remimbi è sicuramente una vittoria strategica, lasciando alla capitale olimpica il primato delle operazioni in valute estere. Questa lotta per la supremazia si esplicita anche in alcune forme di protezionismo e difesa degli interessi nazionali, come nel caso delle inchieste sui fondi dell’Iran da parte di alcuni procuratori americani particolarmente aggressivi. Anche se alcune vittime illustri, fra le banche, di esborsi milionari non sarebbero state multate se avessero seguito le regole.

Regole che sono sempre di più e sempre più articulate, che hanno portato molte banche internazionali ad aumentare le loro divisioni di compliance, destinate ad analizzare conduct risk. Lo scandalo del Libor è un altro esempio, dove, spesso, gli abusi sono stati individuati dai processi interni di whistleblowing. Le banche collaborano, si adeguano, cercano sicuramente maniere per continuare a fare il loro lavoro. Che, al presente, è come cercare di bere un caffé bollente sopra il tappeto magico di Aladino. Perché un’altra battaglia in corso è quella del talento, delle persone che si spostano, della perdita di capitale umano. Che diventa perdita di capitale sociale ed ultimamente finanziario. Dopo le persone e le loro capacità, seguiranno le fortune delle banche. Soprattutto se tutto questo sommovimento di regole, di nuove imposizioni, come la separazione fra banche di investimento e commerciali, dettata in Inghilterra dalla Independent Banking Commission e negli Usa dalla tirata a lucido dello Glass-Steagall Act, non arriverà; a quello che si chiama uno stato di stabilità. Dalla crisi, si esce anche con regole chiare, globali, condivise e con strumenti che non siano a doppio taglio. Banche centrali e governi devono decidere quale sia il trade off più accettabile.

Un settore finanziario che si preoccupa solo di avere coefficienti di bilancio per resistere allo stress finanziario derivante da un meteorite che colpisca la terra od un approccio micro al rischio, dove l’economia sia di nuovo resa sostenibile e dove cambi anche la forma di relazione fra operatori finanziari e loro clienti. Le suggestioni sono tante, ma vi lascio con un’idea: cosa accadrebbe se per le piccole e medie imprese, le banche prendessero come forma di garanzia una parte dell’equity del soggetto che finanziano? Una forma media e temperate di finanza islamica, in salsa svizzera di Basilea. Per cui un investimento azionario ha un peso sul bilancio molto piu’ alto, in termini di Risk Weighted Assets, molto piu’ alto.

Su una cosa, Einstein aveva ragione, se perdiamo, collettivamente questa Guerra Finanziaria Mondiale, lasciando che regole, modelli finanziari temperate al fuoco del disastro che sono stati gli anni dal 2007 al 2012 dominino ragionevolezza e common sense la prossima Guerra mondiale la combatteremo con la clava. Se troveremo qualcuno che ce la possa prestare.

*risk manager in una grande banca della City, le opinioni dell’articolo sono personali dell’autore

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