«Vivere in Finlandia? Oggi significa vivere in un Paese dove la democrazia è applicata pienamente. Dove i diritti umani sono ben tutelati. Dove i rapporti tra cittadino e Stato sono basati sul rispetto reciproco. Qui all’ufficio delle tasse, per esempio, si telefona per avere chiarimenti e consigli, e in genere te li danno con garbo».
Nicola Rainò conosce bene la Finlandia. Studioso di lingue ugro-finniche, vive a Helsinki dal 1994. Tra i principali traduttori nostrani di letteratura finlandese, parla volentieri del suo Paese adottivo, che molti italiani conoscono solo per il clima rigido e gli innumerevoli laghi. E che invece è una potenza high-tech. Con uno dei redditi pro capite più alti del mondo. Un welfare eccellente. Una cultura unica, che mescola internet e miti arcaici.
«Vivere qui significa anche confrontarsi con una cultura molto diversa, non sempre facile da capire», continua «parte di questa cultura è un rispetto della privacy che a noi sembra simile a una forma d’introversione. Ma con il tempo si capisce che si tratta di rispetto, e si impara a rispettarlo…»
I finlandesi saranno pure introversi, ma di sicuro se la cavano con l’economia. Tra il 2004 e il 2009 il Pil reale è cresciuto in media dell’1% annuo: più di Svezia (0,9%), Francia (0,8%), Germania (0,6%), Danimarca (0,2%) e naturalmente Italia (-0,5%). Nel 2010, in base ai dati del Fmi, il tasso di crescita ha superato il 3,7%. Nel 2011 il 2,8%. Persino quest’anno, a dispetto dell’eurocrisi, dovrebbe attestarsi intorno allo 0,6%.
«L’economia della Finlandia sta facendo sorprendentemente bene, considerando che Nokia, il simbolo dell’industria finlandese, è in grossi guai, e che c’è incertezza in merito al futuro dell’euro» spiega a Linkiesta Tom Berglund, docente di microeconomia applicata e teoria dell’impresa alla Hanken School of Economics, una delle più importanti business school nordiche.
La Finlandia, poi, ha i conti in ordine. Il rating è AAA, e lo spread con i bund a dieci anni è di poco superiore allo zero. «Il rapporto debito/Pil si è collocato intorno al 40%, uno dei dati più bassi dell’eurozona», sottolinea il professor Panu Kalmi, economista dell’università di Vaasa, città costiera della Finlandia occidentale. «Il governo finlandese può indebitarsi a tassi molto favorevoli. Il settore bancario è solido e non ci sono perdite sui prestiti».
Secondo Eurostat a luglio il tasso di disoccupazione finlandese era del 7,6%, contro l’11,3% dell’eurozona. Non manca il lavoro, mancano invece i lavoratori: all’inizio dell’anno ha destato un certo clamore, in Spagna, la notizia che il governo finlandese era a caccia di infermiere basche, considerate tra le migliori del continente.
Sempre in base ai dati Eurostat, a luglio il tasso di disoccupazione giovanile finnico (17,8%) era migliore di quello europeo (22,6%), nonché di quello svedese (22,6%), francese (23,4%), italiano (35,3%) e spagnolo (52,9%) Non stupisce che i giovani finlandesi temano il futuro meno dei loro coetanei europei. Almeno sul piano economico.
«Fin dall’inizio dei miei studi universitari ho dovuto convivere con la consapevolezza che, in Italia, essi non mi avrebbero portato a niente, e che probabilmente non ci sarebbe stato lavoro per me neppure se avessi fatto la commessa, o studiato medicina. Le mie amiche finlandesi non hanno mai del tutto capito questa paura dei giovani italiani di passare da “studenti” a “disoccupati” (una paura preesistente alla crisi). Per loro un lavoro si trova sempre».
A parlare, dalla campagna toscana, è Laura Nunziati, laureata in lingua e letteratura finnica all’università di Firenze. Si è innamorata della Finlandia quand’era bambina: «Alle medie ho letto J. R. R. Tolkien, scoprendo che tutta la lingua elfica e la sua struttura erano state riprese dalla lingua finlandese». A suo parere la cultura finnica è una «miscela intrigante, dove le vecchie tradizioni si mescolano con il nuovo; ciò ricorda un po’ la cultura giapponese».
Al pari del Giappone, la Finlandia è una terra che «pur essendosi modernizzata tardi, ha raggiunto livelli di progresso incredibili». E dove il lavoro è visto come qualcosa di «bello, che non serve solo per avere lo stipendio ma risponde proprio a un bisogno della persona».
Risorsa principale dell’economia della Finlandia è quella che Berglund definisce «una forza lavoro abbastanza istruita. Dato il livello relativamente alto dei salari, non siamo competitivi in lavori di basso livello, così non abbiamo altre scelte che essere un’economia basata sulla conoscenza».
Che la Finlandia sia un’economia della conoscenza lo conferma a Linkiesta l’ambasciatore italiano a Helsinki, Giorgio Visetti. «In genere chi ha poche risorse naturali si ingegna a trovare un modo per assicurare il proprio sostentamento e sviluppo. Ciò è particolarmente vero per chi affronta condizioni naturali e climatiche impegnative, che richiedono un’attenta programmazione di sopravvivenza». Una caratteristica della Finlandia, rileva il diplomatico, è proprio la «grande capacità di mantenere gli investimenti in formazione e quelli in ricerca e sviluppo, contando sul ruolo del settore pubblico e privato».
E infatti nel 2009 la spesa in ricerca e sviluppo della Finlandia ha sfiorato il 4% del Pil. Un record in Europa. Quanto a iscritti all’università, nel mondo solo Cuba e la Corea del Sud registrano percentuali superiori. Ma la vera arma segreta del popolo finlandese è la più insospettabile che ci sia: le scuole. Perché nella guerra globale per il benessere, la prima linea passa tra banchi, lavagne e cortili.
«Questo Paese ha capito da un pezzo che la formazione dei cittadini è la base dello sviluppo, e il finanziamento della ricerca la sua naturale evoluzione», commenta Rainò. «Qui la gente studia anche quando va in pensione, frequentando corsi di cultura generale, lingue, pure corsi tecnici».
Le sue scuole funzionano così bene che la Finlandia è considerata una vera superpotenza dell’istruzione. Almeno in base ai risultati del celebre Programme for International Student Assessment (Pisa) 2009, indagine promossa dall’Ocse per valutare le competenze degli studenti di tutto il mondo in lettura, matematica e scienze. I quindicenni finnici sono stati promossi a pieni voti: nel ranking globale risultano rispettivamente terzi, sesti e secondi, e battono tutti i coetanei europei, italiani inclusi. Solo gli studenti di Shanghai riescono a fare sempre meglio.
«Considero il modello d’istruzione finlandese il migliore per una società post-industriale» spiega a Linkiesta lo statunitense Tony Wagner, innovation education fellow al Technology and Entrepreneurship Center di Harvard, ed autore di acclamati saggi quali The global achievement gap e Creating innovators. «Quarant’anni fa, la Finlandia era un’economia agricola e aveva un sistema d’istruzione non soddisfacente. I finlandesi hanno capito che per avere un’economia e una società civile dinamiche era essenziale trasformare il loro sistema d’istruzione: eliminare i sistemi di monitoraggio, riorganizzare il sistema di preparazione degli insegnanti, focalizzare i curriculum nazionali più sulle idee e i concetti, meno sulle abilità mnemoniche».
Secondo Wagner, il maggior punto di forza della Finlandia è «la qualità della preparazione dei docenti e, come risultato, la qualità uniformemente alta dell’insegnamento nelle classi. Alla fine gli insegnanti sono tra i più stimati professionisti del Paese».
Quanto dice lo studioso è confermato da Pekka Luoma, insegnante-capo, cioè preside, della Helsingin medialukio, tra le più grandi scuole medie superiori della nazione. «Direi che in Finlandia studiare e avere la possibilità di ricevere un’istruzione sono diritti fondamentali di tutti i cittadini. Persino oggi diventare un insegnante è una delle professioni più popolari tra i giovani. Suppongo che questo dica qualcosa sull’attitudine positiva verso la scuola qui» spiega Pekka Luoma. «Tipico della Finlandia è che cerchiamo di formare e supportare tutti gli studenti, e abbiamo un tasso di abbandono scolastico piuttosto basso. Forse il nostro sistema scolastico non è il migliore per chi è assai talentuoso e preferirebbe studi molto individualizzati. In generale direi però che i risultati dei test Pisa non danno una rappresentazione totalmente erronea del nostro sistema scolastico».
Raccontando la sua carriera, Luoma dice molto anche sulle scuole finlandesi, e sullo spirito che le anima. «Qui tutti gli insegnanti-capo delle scuole medie devono avere le competenze di un insegnante, e ovviamente una laurea di secondo livello. Il mio primo incarico fu come docente di storia ed educazione civica. Per molti anni ho presieduto l’associazione degli insegnanti finlandesi di storia ed educazione civica, la Hyol Ry», racconta. «Siccome la gerarchia nelle scuole finlandesi è alquanto piatta, se si vuole fare carriera la scelta naturale è diventare insegnante-capo: io lo sono da diciotto anni. Quando sono stato eletto a questo incarico, ho dovuto scordarmi le lunghe vacanze estive, una delle caratteristiche principali della vita dei docenti in Finlandia».
È interessante notare che gli insegnanti finlandesi sono tra i più sindacalizzati d’Europa. E pure tra i più pagati: secondo i dati dell’Ocse, all’apice della carriera un insegnante delle superiori percepisce uno stipendio di oltre 61mila dollari (PPP). Non si tratta di un record, in Europa: belgi, tedeschi, svizzeri e lussemburghesi, ad esempio, prendono molto di più. Si tratta però di una paga sensibilmente superiore a quella della media continentale (53.956) o di potenze industriali come l’Italia (48.870) e la Francia (52.150).
Insegnare, in Finlandia, è un privilegio. Non un ripiego. La selezione è spietata: solo il 10% degli aspiranti docenti riesce a coronare il suo sogno. Seguono corsi di specializzazione e di aggiornamento, e continue sessioni di studio in cui i colleghi analizzano le rispettive classi, scambiandosi opinioni sui metodi didattici migliori. I “casi” più difficili sono discussi tutti insieme, come i medici di un reparto alle prese con un paziente difficile. Lo “spirito di corpo” è tale che si ha l’impressione di avere a che fare con un reparto di élite dell’esercito, non con dei tranquilli pedagoghi.
«In Finlandia gli studenti più bravi vogliono fare gli insegnanti. C’è persino chi si lamenta, e dice che è uno spreco», racconta dalla Francia, in un ottimo italiano, Mikko Myllykoski, experience director dell’Heureka, museo scientifico finlandese di fama internazionale. «In realtà quella dell’insegnante è una professione molto rispettata. È solo grazie all’istruzione che la Finlandia ha potuto cambiare. Negli anni sessanta dell’Ottocento avevamo le carestie. Il miracolo economico finnico è stato possibile grazie a scuole e università».
«Avrei potuto lavorare nell’azienda di famiglia, con una buona paga, e invece ho deciso di insegnare», confessa a Linkiesta una docente di mezza età che preferisce rimanere anonima. «E sa una cosa? Non me ne sono mai pentita. Mai. Aiuto dei ragazzi a diventare grandi. Cosa c’è di meglio?»
«La ricetta della nostra scuola? Prenda i giovani migliori, i più svegli; li prepari molto bene, dia loro una paga decente e li faccia lavorare in tutta tranquillità, dandogli un po’ di tempo per studiare e un po’ per rilassarsi – continua – Ogni scuola è fatta di studenti e insegnanti. I computer e altri equipaggiamenti sofisticati vengono dopo. Prima le persone».
Perché una scuola funzioni, però, non bastano buoni insegnanti. Servono genitori attenti, e studenti con la voglia di imparare. In Finlandia questo sembra succedere. «Le relazioni tra docenti e genitori sono essenzialmente positive e cooperative. Ovvio, in ogni scuola ci sono genitori che chiedono assistenza extra per i loro figli, e ci sono pure quelli che non mostrano interesse per quanto accade in classe o ai loro figli», spiega Luoma. «Quanto alle relazioni tra insegnanti e alunni, sono piuttosto informali e amichevoli. C’è un clima allegro in classe, e gli alunni non hanno paura di venire a scuola. Uno dei valori fondamentali nella nostra scuola è che vogliamo offrire agli studenti la possibilità di assumere un ruolo attivo nella loro istruzione. Imparare non è la stessa cosa che insegnare, deve essere un’operazione congiunta tra il docente e gli studenti, e anche tra i singoli studenti».
Rispetto ad altri sistemi scolastici, quello finlandese non si limita a fornire istruzione, ma welfare, ed è integrato nel più ampio sistema assistenziale nazionale. L’obiettivo primario è il benessere psicofisico dello studente, condizione basilare dell’apprendimento. Il risultato è una scuola pubblica di qualità. Più pedagogica che tecnologica. Con pochissimi bocciati. Dove si punta su piani di studio molto personalizzati. E le difficoltà nell’apprendimento si affrontano con tempestività.
«La Finlandia è una nazione povera, quanto a risorse naturali. La risorsa più importante che abbiamo sono i finlandesi. Perciò dobbiamo investire su di loro», dice a Linkiesta Pekka Hirvonen, primo segretario dell’ambasciata di Finlandia a Roma. «In particolare, il sistema d’istruzione finlandese è conosciuto perché il suo livello qualitativo è lo stesso in tutte le scuole, in ogni parte del Paese. Per noi è molto importante che tutti i bambini, a prescindere dalle loro origini, dal sesso o dal retroterra familiare, possano accedere in egual misura a un’istruzione di alta qualità».
«Una caratteristica bellissima del sistema scolastico finlandese è che prevede fin da subito lo studio di materie come la lingua straniera e la musica», dice la Nunziati dalla Toscana. «Ogni scuola lì ha un corso di musica dove i bambini imparano a suonare vari strumenti, forniti dall’istituto scolastico stesso: dal flauto al violino, dalla chitarra alla batteria».
Non c’è competizione tra scuole, in Finlandia. Né quell’ossessione per test e graduatorie che causa tanto stress agli insegnanti e agli studenti statunitensi (e, in misura crescente, ai loro colleghi europei). Prevale piuttosto la volontà di insegnare bene. E consentire lo sviluppo della personalità dello studente.
Naturalmente un simile modello, ancorché di successo, non è di facile esportazione. Come scrive Pasi Sahlberg, esperto di istruzione e autore del saggio Finnish lessons: what can the world learn from educational change in Finland?, «il sistema di welfare finlandese garantisce a tutti i bambini la sicurezza, la salute, l’alimentazione e il sostegno morale di cui necessitano per andar bene a scuola. Una lezione dalla Finlandia, perciò, è che cambiamenti di successo e buone prestazioni nell’ambito dell’istruzione richiedono spesso miglioramenti a livello sociale, occupazionale ed economico».
Ma come sottolinea a Linkiesta Wagner, a dispetto delle differenze tra nazioni, «possiamo imparare molto dal lavoro finlandese: specialmente la loro riorganizzazione dei programmi di preparazione degli insegnanti».
Anche il sistema universitario funziona, pur senza raggiungere i livelli di quello svedese. L’ateneo di Helsinki, nella graduatoria di Times Higher Education, è al novantunesimo posto nel mondo, al ventinovesimo in Europa, al quarto in Scandinavia. «L’università finlandese mi ha colpito moltissimo per varie ragioni», conferma a Linkiesta la Nunziati. «La prima è che offre un servizio quasi gratuito a tutti gli studenti».
La trasformazione del sistema d’istruzione finnico, iniziata negli anni Settanta, e proseguita negli anni Ottanta e Novanta, è stata resa possibile da un forte impegno di politica e parti sociali. Nella convinzione che un sistema scolastico di alta qualità fosse destinato, nel luogo periodo, a rivelarsi un investimento redditizio.
Oggi la Finlandia è una delle economie più innovative del mondo. E in proporzione agli abitanti, i brevetti in vigore sono di più che in Francia, Regno Unito o Germania.
L’83% dei finlandesi tra i 16 e i 74 anni usa la rete, contro il 74% dei tedeschi e il 48% degli italiani. Il 76% delle famiglie naviga con la banda larga. E il dato tocca il 93% quando si parla di imprese. Per i finlandesi internet è una cosa seria. Non a caso dal 1° luglio del 2010 tutte le aziende di telecomunicazione attive nel Paese, per legge, devono fornire a tutti i residenti (inclusi quelli delle sperdute municipalità artiche) una connessione a banda larga di almeno un megabit al secondo.
«La Finlandia si è guadagnata una reputazione globale quanto a capacità di innovazione, competitività e affidabilità», conferma a Linkiesta il vicepresidente esecutivo di Invest in Finland, Tuomo Airaksinen. Grande importanza, naturalmente, ha il settore Ict, ossia delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. «Eurostat stima che l’industria finnica del software e dei servizi informatici sia cresciuta del 5% nel 2010 e dell’8% nel 2011. Si tratta di un’industria prevalentemente business to business, dominata da piccole e medie imprese in termini numerici, e grandi in termini di volumi», spiega. «In quanto patria di Nokia, la Finlandia ha un bel po’ di competenze nella telefonia mobile. I consumatori e le imprese finlandesi sono utilizzatori precoci di nuova tecnologia, e c’è una forte domanda di prodotti e servizi Ict».
Finlandesi sono Linus Torvalds, tra le menti di Linux. Rovio, l’azienda di videogiochi dietro Angry Birds. E soprattutto la Nokia. Che ora è in crisi. Basta dare un’occhiata al prezzo delle sue azioni: alla fine del 2007 sfioravano i 40 dollari, oggi sono sotto i tre.
È difficile sottovalutare l’importanza di Nokia per l’economia finlandese degli ultimi vent’anni. Come ha evidenziato un testo del Research Institute of the Finnish Economy (Etla), nel 2008 Nokia rappresentava circa il 2,6% del Pil finlandese. E i suoi investimenti in ricerca e sviluppo valevano, da soli, un terzo del totale nazionale.
L’anno scorso, sul quotidiano nazionale Helsingin Sanomat, è apparso un articolo intitolato Nokian viimeinen palvelus (L’ultimo servigio della Nokia). Pur riconoscendo il ruolo cruciale di Nokia nel far nascere la “Finlandia di internet”, l’autore dell’articolo, Jussi Pullinen, indicava nell’azienda una delle principali cause del ritardo finlandese nel settore dei telefonini multimediali. E concludeva l’articolo con brutale realismo finnico: «o la Nokia risorge, oppure è meglio che scompaia, lasciando spazio ad altri», (il suo ultimo servigio, appunto).
Naturalmente è arduo immaginare una Finlandia senza Nokia. Soprattutto se si ripensa agli anni d’oro dell’azienda, agli inizi di questo secolo. Quando Samsung ed Apple erano solo brand stranieri. E la Nokia una fonte di vanto e gloria paragonabile alla nazionale maschile di hockey. Nel 2000, secondo la già citata analisi dell’Etla, Nokia contribuiva a quasi la metà della crescita del Pil. E nel 2003 forniva il 23% del gettito delle imposte su reddito d’impresa del 2003.
La crisi della Nokia si tocca con mano a Salo, cittadina di 55mila abitanti cento chilometri a nordovest di Helsinki. A settembre lo stabilimento dell’azienda chiuderà una volta per tutte, lasciando senza lavoro oltre ottocento persone. Un duro colpo per la cittadina, per anni tra le più ricche della Finlandia. È un po’ come se la Fiat chiudesse tutta Mirafiori.
«Il gettito delle imposte su reddito d’impresa è ammontato, nel 2010, a circa 60 milioni, di cui 40 milioni da Nokia», dichiara a Linkiesta Seppo Pietarinen, infaticabile direttore dello sviluppo economico della città di Salo. «Nel 2011 è stato di 40 milioni, di cui 25 da Nokia. Le stime per quest’anno sono 15 milioni in tutto, di cui zero da Nokia».
Insomma, oltre a un grave problema occupazionale, Salo ne ha anche uno, altrettanto serio, di bilancio. La cittadina però non molla. I suoi abitanti sono gente tenace, combattiva. Con un’eccellente istruzione, e una dedizione al lavoro che Max Weber avrebbe invidiato.
«Salo può diventare un modello di sopravvivenza in caso di gravi e improvvisi cambiamenti strutturali. L’impatto è stato pesante, ma siamo felici di aver avuto qui la Nokia. Meglio con che del tutto senza», spiega Pietarinen. «La Nokia ha portato tantissima prosperità in questa zona. Tuttavia le condizioni dell’economia mondiale non favoriscono, al giorno d’oggi, la produzione di massa di telefonini in Paesi sviluppati della Ue. Ora è tempo di cambiare e trovare un nuovo ruolo nel business globale. La gente qui ha volontà e capacità. I finlandesi hanno sisu (fegato), e ancora una volta è questo che ci serve».
Nel corso della sua breve storia, la Finlandia, indipendente dalla Russia solo nel 1917, ha dato spesso prova di sisu. Una parola intraducibile, che significa allo stesso tempo tenacia, determinazione, coraggio, volontà di vincere, perseveranza. Alcuni la considerano la più bella della lingua finnica.
Tra il gennaio e il maggio del 1918 infuriò una feroce guerra civile tra “rossi” e “bianchi”. Prevalsero i secondi, ma nonostante il crudele battesimo del fuoco, la neonata nazione riuscì a preservare istituzioni (relativamente) democratiche. Pochi anni dopo arrivò la seconda guerra mondiale, e i durissimi combattimenti prima con i sovietici, poi con i tedeschi. La pace con Mosca ebbe un prezzo enorme: la cessione di parte della Carelia e di altri territori strategici.
«La Finlandia è un Paese giovane, i primi documenti scritti in finnico sono cinquecenteschi e fino all’Ottocento la lingua della cultura era lo svedese», spiega a Linkiesta il professor Enrico Garavelli, docente di filologia italiana all’università di Helsinki. «Tutto il Paese è come proiettato verso il moderno e i suoi miti. Ma chi non ha storia non ha neanche identità, e i finlandesi lo sanno bene: basti pensare a quella disperata ricerca, o meglio costruzione, delle “radici” che è il Kalevala (il poema epico nazionale), o al trauma della perdita della Carelia, il “cuore” folklorico del Paese, dopo la seconda guerra mondiale».
Durante la guerra fredda Helsinki, formalmente neutrale, dovette barcamenarsi tra l’Ovest e la confinante Unione sovietica, ricorrendo a uno strano (ma efficace) miscuglio di fermezza, arrendevolezza e astuzia. «Per un piccolo Paese è consigliabile cercare amici vicini e nemici lontani», dichiarò nel 1990 l’allora presidente finlandese Mauno Koivisto, chiamando in causa Machiavelli.
La parabola di Koivisto è, a suo modo, tipicamente finlandese. Nato nel 1923 a Turku, in una famiglia indigente, si distinse giovanissimo nei combattimenti contro i sovietici. Dopo la guerra esercitò il mestiere di carpentiere. Luterano, ma al contempo socialdemocratico di ferro, divenne un fiero avversario dei comunisti. Ben deciso a farsi un’istruzione, prese la licenza di scuola superiore, divenne maestro di scuola elementare, si laureò e riuscì persino a conseguire un dottorato in sociologia. Intraprese quindi una carriera di banchiere che lo portò ai vertici dell’establishment: ministro delle finanze, governatore della banca centrale finlandese, primo ministro, infine presidente della repubblica dopo il lunghissimo mandato del centrista Urho Kekkonen. Non male, per un ragazzino rimasto orfano a dieci anni.
Nei primi anni Novanta, con il crollo dell’Unione sovietica, partner commerciale strategico, e una durissima crisi finanziaria (-6% il calo del Pil nel 1990), la Finlandia dovette di nuovo dare prova di sisu. Ultimando la sua trasformazione in una “economia della conoscenza”. E cambiando mentalità.
Quella che era «una taciturna nazione di produttori di pasta di legno» dovette trasformarsi in un popolo di «tecnologi molto fichi e professionisti tosti, pronti a fare squadra». O almeno questa è l’opinione di Tuomo Alasoini, uno dei direttori della Tekes, l’agenzia finlandese per l’innovazione.
Cinquantaquattro anni, un PhD in sociologia, come molti suoi connazionali Alasoini ama esprimersi con disarmante franchezza. «L’innovazione è cruciale per la Finlandia, perché il futuro del welfare dipende da una rapida crescita della produttività e da una migliore qualità della vita lavorativa, e nuove soluzioni (innovazioni, cioè) sono necessarie in entrambe le aree con urgenza».
In altre parole, la solidarietà ha un prezzo. Serve un’economia in gran forma per pagare un generoso e capillare welfare. Previsto, peraltro, dalla stessa costituzione finnica: «Coloro che non possono ottenere i mezzi necessari per una vita dignitosa hanno il diritto a ricevere il sostentamento e le cure indispensabili».
«Lo Stato finlandese, dove si ruba molto meno che in Italia, ha ammortizzatori sociali che funzionano (!)», racconta a Linkiesta Rossana Moroni, romana con un dottorato in statistica, presidente del Circolo degli Italiani in Finlandia. A suo parere il welfare incide sul carattere dei cittadini: «In generale direi che i finlandesi sono molto individualisti, e credo che questo sia da imputarsi a una grande presenza dello Stato nella vita quotidiana. Dalla culla alla tomba, se hai un problema lo Stato ti aiuta. Non si sente la necessità di avere famiglia o amici per un sostegno quando si hanno problemi. C’è lo Stato che pensa a tutto e, come dicono loro, lo fa nel migliore dei modi possibili».
I finlandesi sembrano essere alquanto soddisfatti delle loro vite. Nella graduatoria dell’Ocse in merito sono al nono posto (su trentasei nazioni valutate). I vicini danesi e norvegesi sono rispettivamente primi e secondi, ma Paesi come Svezia, Stati Uniti, Francia, Germania e Italia fanno peggio.
«In Finlandia, o forse dovrei dire a Helsinki, che è l’unica vera grande città, si vive molto bene», conferma il professor Garavelli, che risiede nella capitale dal 1998. «La qualità dei servizi è alta, la natura onnipresente, il clima degli ambienti di lavoro respirabile (penso soprattutto alle ansie e alle frustrazioni dei miei colleghi italiani). Naturalmente non mancano aspetti negativi, non è tutto oro quel che luccica, ma il bilancio è positivo, e io mi considero un fortunato».
«Se paragoniamo la Finlandia ad altre nazioni, noi siamo una società piuttosto egualitaria quanto a ricchezza, diritti delle donne e accesso alla sanità e all’istruzione», riconosce l’economista Markus Wartiovaara, autore di un’interessante ricerca sulla “ascesa e caduta della ricchezza miliardaria”. «Comunque, anche se possiamo essere grati di tutto ciò, continuano a esserci significative ineguaglianze e disfunzioni sociali che devono essere affrontate».
La Finlandia è uno dei Paesi europei dove il reddito familiare è distribuito più equamente. Danimarca, Svezia e Norvegia riescono però a fare meglio. «La società del welfare esiste, ma purtroppo molto meno che in passato, e non può più offrire né ai giovani né agli anziani né ai malati tutte le cure e i servizi dei quali avrebbero bisogno», spiega Elina Suomela-Härmä, ordinario di filologia italiana all’università di Helsinki.
Non tutti sono pro-welfare, in Finlandia. Di recente, per esempio, uno dei libri più venduti è stato il discusso Markkinat ja demokratia – loppu enemmistön tyrannialle (Mercato e democrazia – la fine della tirannia della maggioranza) del famoso banchiere liberista Björn Wahlroos. Tuttavia è difficile credere che la Finlandia pecchi di socialismo statalista. Nella classifica dei Paesi più competitivi al mondo, la nazione nordica è terza, preceduta solo da Svizzera e Singapore. Nell’indice di libertà economica elaborato dalla Heritage Foundation è diciassettesima. Fa meglio di nazioni come la Svezia, il Giappone o la Germania (l’Italia è novantaduesima).
In realtà il sistema previdenziale sembra essere uno dei collanti identitari nazionali. «I tipici valori finlandesi erano un tempo quelli cristiano-agrari, ma oggi non esistono più al di fuori di alcune remote e culturalmente primitive contrade del Paese», dice a Linkiesta uno dei più influenti pensatori finlandesi, Timo Airaksinen, docente di filosofia all’ateneo di Helsinki. «I moderni valori della Finlandia sono i valori liberali dell’Occidente laico e urbanizzato, specie quelli scandinavi. Il welfare state è ancora considerato valido e importante. Anche l’eguaglianza lo è, e si può ancora trovare un po’ di patriottismo».
Una particolare attenzione è riservata alla parità tra i sessi. «Quando era ancora una regione autonoma dell’Impero russo la Finlandia fu la prima nazione europea a riconoscere il diritto di voto alle donne nel 1906, e la prima nel mondo a portare in parlamento delle donne, con le elezioni del 1907» dichiara a Linkiesta il primo segretario Hirvonen. «Dei 200 membri dell’odierno parlamento finlandese 85 sono donne. Così come sono donne 9 dei 19 ministri del governo del primo ministro Katainen. Nel Undp Gender Inequality Index, che misura l’eguaglianza di genere, la Finlandia è quinta».
Purtroppo una piena parità non è stata ancora raggiunta, «ma stiamo infinitamente meglio che in Italia», osserva la professoressa Suomela-Härmä. «Rispetto al nostro Paese, la condizione delle finlandesi è invidiabile», osserva la trentina Carlotta Serafini, studentessa di giornalismo, che in Finlandia ha trascorso quasi un anno. «In generale, penso che da loro si possa imparare molto».
Dai finlandesi, per esempio, gli italiani potrebbero forse imparare a lavorare di più a favore del bene comune. «La furbizia va bene a livello individuale, ma per la società è meglio collaborare» fa pacatamente notare Myllykoski, che conosce bene la penisola.
La Finlandia funziona. Lo conferma a Linkiesta, con un secco sì, l’ambasciatore Visetti. Lo racconta, con l’entusiasmo dell’età, Elena Entradi. Fiorentina, 24 anni, si è appassionata alla Finlandia grazie alla musica metal, e all’università ha studiato il finlandese. «Ogni volta che sono stata lì ho percepito una sorta di tranquillità. Anche tra i giovani. È un Paese sereno. E che non è ancorato al passato, a differenza dell’Italia. Ha la tendenza a rinnovarsi, a non avere paura del futuro».
Per affrontare il futuro, i finlandesi possono contare sulle loro scuole e sulla loro tecnologia. E sul sisu, ovvio. Perché quando i tuoi concorrenti economici sono potenze high-tech come la Corea del Sud o gli Stati Uniti, il fegato serve.