In attesa che ci si muova anche in Italia il mondo arabo brulica di start up

In attesa che ci si muova anche in Italia il mondo arabo brulica di start up

Alcuni erano vestiti con semplici jeans, altri portavano un inappuntabile gessato, tutti quanti, comunque, muniti di biglietto di visita, pronti a scambiarsi idee, ascoltare consigli, scovare possibilità di business. Al Forum imprenditoriale di Amman, a inizio giugno, si respirava aria di primavera araba. Non quella contraddittoria della politica, che procede a tentoni, tra paure estremiste e tentazioni gattopardiste, ma quella rappresentata da una fetta di società, moderna ed avanzata, che ha scoperto l’Occidente tecnologico e ne ha intuito tutte le potenzialità in termini di sviluppo.

Le rivolte che hanno portato a una serie di regime change nel Nordafrica sono state, se non originate, quantomeno favorite dal precedente boom di internet e dei social media. Per attivisti democratici e studenti il passaggio dalla piazza virtuale di Facebook e Twitter a quella reale di Tahrir è stato breve. Adesso, malgrado l’avanguardia laica e rivoluzionaria, che ha promosso il cambiamento, sia rimasta ai margini del processo politico, il fervore internettiano della primavera non è rimasto perduto. Quasi ovunque si assiste al fiorire di iniziative economiche che sfruttano la rete e gli ultimi ritrovati tecnologici, come le applicazioni per i telefonini.

Alcuni dati aiutano a chiarire il concetto. Tra il 2000 e il 2010 gli utenti del web nel Medio Oriente e in Nordafrica sono decuplicati, passando a più di 100 milioni, secondo un report della Banca Mondiale. Nella regione ci sono più cellulari che persone. Circa l’ottantacinque per cento dei possessori di telefonino lo utilizza per accedere ad Internet o scaricare le applicazioni per i social network. Nel 2010 le società di venture capital hanno finanziato 17 compagnie tecnologiche nell’area, nel 2011 il loro numero è salito a 66. Gli investitori si dicono pronti a fornire 500 milioni di dollari per il lancio di nuove iniziative web based.

Tom Speechley, fondatore della piattaforma Wamda.com e senior partner di Abraaj Capital, un grande fondo di private equity con sede a Dubai, parla un linguaggio darwiniano: «Molte start-up falliranno, solo poche avranno successo, come avviene ovunque». Ma le potenzialità di azione sembrano enormi. Una delle principali conseguenze della primavera araba è stata di ordine psicologico e ha portato ad infondere un po’ ovunque la sensazione di poter raggiungere degli obiettivi che prima parevano un miraggio. Di qui il diffuso ottimismo di stampo positivista che è alla base di ogni impresa economica. Il ruolo-chiave giocato dai social media durante i rivolgimenti politici ha stimolato la nascita di nuove aziende: creare business — e quindi occupazione — viene visto come un atto di sviluppo sociale, tanto rivoluzionario quanto il marciare per strada contro i vecchi autocrati.

Gli investimenti nelle start-up basate sulla rete sono una novità relativamente recente nel mondo arabo, ma dopo l’acquisizione del portale Maktoob.com da parte di Yahoo — per 165 milioni di dollari, nel 2009 — il settore è cresciuto a dismisura. Non mancano le storie di successo da raccontare. La libanese Diwanee è una compagnia di digital media che crea e distribuisce contenuti in lingua araba. Pubblicazioni come Yasmina.com e 3a2ilati.com raggiungono quasi due milioni di donne sotto i trentacinque anni nei Paesi del Golfo. Tarek Homsi, general manager di Diwanee, racconta: «In tre anni abbiamo creato 140 posti di lavoro. Stiamo acquisendo spazio in un ambiente in continua evoluzione. Cerchiamo di diventare i leader di questo pubblico femminile» Con O’Donnell, chairman di books.com.eg, libreria on line in arabo e inglese, sottolinea le differenze rispetto all’ancien régime: «Per decenni non c’è stata libertà, ma solo uno o due media al servizio del governo. Adesso il mercato si è aperto a nuovi player indipendenti,che contribuiscono a creare una gamma sempre più ricca».

Tra le aziende più ambiziose spicca la giordana Kharabeesh — scarabocchio, in arabo — che produce cartoni animati, video musicali e talk show, senza tenersi alla larga dai temi politici. La società è nata nel 2008, ma la primavera ha accresciuto la sua popolarità, soprattutto grazie alle sottili parodie, che hanno messo nel mirino, ad esempio, l’ex leader libico Gheddafi o il tortuoso processo politico egiziano. «Tutto quello che intendevamo fare era ispirare i giovani, essere sperimentali, provocatori e, al tempo stesso, arabi», sostiene uno dei fondatori, Wael Attili. «Grazie allo spirito che circolava nell’aria, le rivoluzioni ci hanno dato un ulteriore scopo e ci hanno permesso di contribuire ai processi politici che hanno attraversato la regione». Attili spiega la filosofia aziendale: «Le persone si trovano di fronte a qualcosa di semplice e di innovativo. La semplicità è molto importante, perché il pubblico deve pensare di poter fare qualcosa di simile».

Il problema, per tutte queste compagnie, è la scarsità del capitale umano. Dalle università della regione non esce un numero sufficiente di laureati in grado di lavorare per l’industria ad alta tecnologia. «Le intelligenze emergono dal sistema educativo, questi lavori sono basati sulla conoscenza», ricorda Elie Habib, titolare di una società di venture capital che opera sia in Libano che nella Silicon Valley californiana. Il mondo arabo deve investire in formazione — e in questo senso alcuni Paesi, come il Qatar, sono all’avanguardia — per evitare che la primavera internettiana appassisca per mancanza di talento.
 

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