Per quanto vi possa apparire strano, quest’anno Barack Obama non è l’unico candidato di origini afro-americane in corsa per la Casa Bianca. Allo stesso modo, Mitt Romney non è il solo ex imprenditore a concorrere per la poltrona più importante degli Stati Uniti d’America. Sono infatti ben diciassette, compresi il Democratico e il Repubblicano, gli aspiranti Presidenti che si sfideranno nelle elezioni politiche previste per il prossimo novembre. Tra di essi ci sono attivisti politici, ecologisti, ultra-conservatori, ex modelli, produttori cinematografici, Trotskisti.
Oltre ai due partiti americani, in effetti, ci sono tanti altri gruppi politici terzi non coalizzati ad aver espresso un proprio candidato per la presidenza. Di questi, però, soltanto due potranno effettivamente raggiungere la fatidica quota di 270 seggi, ovvero quella necessaria per accedere alla carica. Tra di loro c’è una donna: Jill Stein. 62 anni, fisica di formazione, professoressa di medicina per molti anni, Stein alle elezioni rappresenterà il Green Party, gareggiando in 32 stati. Nel suo programma politico, ovviamente, l’attenzione è tutta rivolta alle questioni ambientali ed alle problematiche riguardanti la salute.
L’altro potenziale Presidente concretamente eleggibile è Gary Johnson, candidato per il Libertarian Party. L’ex governatore del New Mexico – carica ricoperta tra il ’95 e il 2003 nelle fila dei repubblicani – vanta un curriculum variegato: titolare in gioventù di un’impresa di costruzioni, ha scalato l’Everest e gareggiato nella Bataan Memorial Death March, corsa di 25 miglia che si svolge nel deserto, compiuta indossando stivali da combattimento. Johnson concorrerà in 43 stati, ed è probabile che sia lui il candidato “minore” a totalizzare, alla fine, il maggior numero di voti in tutto il Paese.
Tra gli altri, Virgil Goode è quello che vanta la maggiore esperienza politica. Non tanto per le cariche ricoperte, quanto piuttosto per il numero di partiti cambiati nel corso degli anni. Diventato senatore in Virginia tra gli indipendenti, nel 1997 Goode è entrato a far parte del Partito Democratico. Tornato tra gli indipendenti nel 2000, si è riciclato come Repubblicano nel 2006, riuscendo a conquistare un mandato per la sesta volta. Ora è diventato l’esponente di spicco del Constitution Party, i cui obbiettivi sono la lotta all’immigrazione e lo snellimento delle dimensioni del governo federale.
Da Salt Lake City tenta la grande avventura l’ex sindaco Rocky Anderson, candidato alla Presidenza (ma senza possibilità reale di elezione) del Justice Party, che chiede la fine dei conflitti militari, l’assistenza sanitaria universale aperta a tutti, e la cooperazione internazionale sul tema del cambiamento climatico. Posizioni decisamente contrastanti rispetto a quelle di Andre Barnett, ex modello ed ex militare, rimasto ferito in uno scontro a fuoco a Sarajevo, nel 2000, mentre serviva l’esercito americano. Barnett è l’esponente di spicco del Reform Party.
Non mancano i rappresentanti dell’estrema sinistra: ci riprova l’afro-americano James Harris, dopo le poco sfortunate esperienze del 1996 e del 2000, a capo del Socialist Workers Party. Primo tentativo invece per Jerry White, candidato dal Socialist Equity Party, forza politica che segue i dettami e la filiosofia di Leon Trotsky. Al primo posto nei programmi di entrambe le forze politiche ci sono la tutela dei diritti dei lavoratori, il miglioramento del sistema pensionistico, il salario minimo garantito.
Dall’altra parte della barricata, spazio a nazionalisti e conservatori d’annata. Merlin Miller del Third Position Party, Will Christensen dell’Indipendent America Party, Tom Hoefling dell’America’s Party: questi i nomi dell’ultra-destra americana, arroccati sulle loro posizioni – no ai matrimoni gay, aborto fuorilegge, irrigidimento delle leggi anti-immigrazione – e diffidenti verso quel “moderato” di Mitt Romney. Miller, in particolare, è un produttore cinematografico iscritto anche al Council of Conservative Citizens, indicato da più parti come un gruppo nazionalista bianco.
In conclusione, ecco le donne. Roseanne Barr ha perso alle primarie la candidatura per il Green Party (contro Jill Stein), e successivamente ha lasciato il partito, cedendo alle lusinghe del Peace and Freedom Party. Barr sostiene l’abolizione del debito per gli studenti e la legalizzazione della marijuana. Peta Lindsay, attivista anti-guerra, è la più giovane del lotto. Troppo giovane: con i suoi 28 anni non potrebbe accedere alla Presidenza nemmeno in caso di elezione. L’età minima prevista dalla Costituzione americana, infatti, è di 35 anni. A chiudere l’elenco, due outsider assoluti: Stewart Alexander del Socialist Party USA, sostenuto dalla NAACP, associazione nazionale per la promozione delle persone di colore, e Tom Stevens dell’Objectivist Party, forza politica che basa la propria azione sulle teorizzazioni economico-filosofiche della scrittrice americana di origine russa Ayn Rand.
Molte di queste candidature, pare evidente, sembrano avere più uno scopo provocatorio che un vero fine politico. La stragrande maggioranza di questi politici (veri o presunti), come detto, non concorre nemmeno in un numero sufficiente di stati per accedere alla Casa Bianca. Il tutto nell’indifferenza più totale delle televisioni, dei giornali, e soprattutto, dei cittadini americani, che dei potenziali Presidenti non hanno nemmeno mai sentito parlare. Una domanda sorge spontanea: cui prodest tutto ciò?