Molti anni fa, lo storico Ruggiero Romano pubblicò un libro dal titolo Paese Italia (Donzelli).Venti anni dopo si scopre leggendo il Corriere della Sera che finalmente abbiamo rivalutato la parola nazione, contro il termine “Paese”, un termine che era un modo per non dire nazione, un modo ideologico, scrive Pier Luigi Battista di oggi (Se in politica ritorna la parola nazione che per anni non si doveva nominare).
Mi sembra un’analisi ideologica (pur accreditandosi come anti ideologica), e ancora una volta legata più ai fantasmi o agli incubi di cui ci si vuole liberare (l’egemonia comunista, il “ricatto culturale della sinistra”…) che non un’analisi concreta della realtà. A me sembra che quel libro di Ruggiero Romano non sarebbe male rileggerlo e magari provare a rispondere a ciò che allora sosteneva Romano con argomenti di carattere storico.
Che cosa sosteneva Romano? Prima di tutto metteva a nudo l’inconsistenza culturale della distinzione tra “europeità” e “mediterraneità” (allora era Gianfranco Miglio). Ruggiero Romano sfatava in quelle pagine molti miti a partire da un principio di analisi che vuole scardinare un “luogo comune” corrente: quello della visione monocausale della storia italiana.
Per Ruggiero Romano esistono i criteri intorno ai quali si può costruire la storia di un Paese. E dunque: fine dell’idea che la storia italiana sia la storia delle città; fine del modello per cui la storia economica si gioca tutta secondo la scansioni dell’industrializzazione, anche quella dei modelli a sviluppo ritardato; inconsistenza dell’Idea di Nazione, e soprattutto di “storia nazionale” perché frutto delle scuole storiografiche del XIX secolo, ma non fondata sulla “storia vera”, ma solo come ricostruzione mitogenica del gruppo umano cui di volta in volta è stata riferita.
Quali sono, allora, i criteri che egli propone? Primo: un’analisi del modello. Per modello egli intende, riprendendo la proposta di Braudel, la “possibilità di esaminare la storia lunga dei paesi”. Secondo Romano «un paese nella lunga durata della sua esistenza offre uno o più modelli, può essere un modello che si riferisce a una totalità, a una civiltà tutta intera, oppure può trattarsi di un modello parziale». Egli ne propone due: il primo che denomina romano-imperiale (è quello cui riferire l’insorgenza e la costituzione del diritto, p.e., il tratto che è rimasto oltre l’esistenza di quel modello, ma che per una lunga durata, per tutto il periodo della persistenza del modello significa unificazione di, amministrazione, catastazione, burocrazia, struttura fiscale, sistema monetario); il secondo è quello comunal-mercantile, che si esprime lungo l’arco temporale tra XIII e XVI secolo (è quello cui riferire per esempio il sistema bancario, il sistema dei commerci, ma che implica anche un consolidato rapporto città/campagna…). Modello che non si riempie solo di dinamica economica, ma che implica anche l’affermazione di uno “stile”. Uno stile che si riflette in forme apparentemente “minori” come cucina, moda, teoria e pratica del giardino “all’italiana”, ornamenti, pitture. «È questo insieme di fattori — conclude Romano — che costituisce il modello italiano».
Con il Rinascimento tutto questo crolla. Crolla, tra l’altro per un processo mancato di trasformazione, per un’involuzione tutta giocata sulle forme, ma del tutto sganciata da preoccupazioni pratiche, perché, infine, altri modelli si fanno avanti. In questi modelli è compreso anche lo Stato nazionale.
Ruggiero Romano insiste — fin dal titolo di questo suo libro — sul fatto che non esiste una nazione italiana, bensì un Paese. Che cos’è un Paese (con buona pace di Pier Luigi Battista)? Un paese è un insieme di elementi forse più “modesti” di quelli molto spesso immaginari che si attribuiscono alla Nazione, ma a suo avviso più concreti: il mangiare e il bere, il credere religioso e magico; la lingua e i dialetti; le usanze e i giochi. È in questo — ed altro ancora — che consiste un Paese. Per questa via Romano respinge l’idea che si possa suddividere l’Italia tra una porzione a vocazione “europea” — e perciò a priori “moderna” — e una “mediterranea” — e perciò “non moderna”. La sua proposta consiste nel guardare all’Italia come un Paese che ha forti tratti di omogeneità — senza peraltro tacere anche delle accentuate differenze che si esprimono in un linguaggio unificato.
Proviamo a considerarne uno: le forme della religiosità italiana. Se ne volessimo tratteggiare la fenomenologia ci accorgeremmo che non ci sono differenze che tengano. Perché mai le “messe nere” o i riti magici, così diffusi a Torino, dovrebbero essere europei — e, dunque, secondo un gergo ormai più che consolidato, moderni — e non così il Mago di Los Angeles (Soverato, provincia di Catanzaro), le “prefiche” pugliesi o calabresi, la fattucchiera lucana? Perché il fenomeno della superstizione così equamente distribuito su tutto il territorio nazionale, dovrebbe essere “industriale” in Padania e “premoderno” oltre la “Linea Gotica”? Perché la bestemmia dovrebbe essere modernamente dissacrante a Mantova e arcaicamente sacrale a Potenza?
Dove sta la differenza con Miglio? In un punto essenziale: che questi vuol spiegare la “storia di ieri” e fondare la “storia di domani” in uno schema in cui la “Storia di ieri” (quella realmente avvenuta, e non quella immaginata) è sistematicamente assente. Ed è assente, perché la storia non è fatta di molte cose che non sono solo “i fatti”. E perché essere storico non si esaurisce solo nel saperli, ma nel definire mappe concettuali, reti di di relazioni, modelli, comparazioni analogie. In breve essere storico non è mai stato il mestiere di Gianfranco Miglio.
Non solo di Gianfranco Miglio, vorrei aggiungere.