Quando le piazze islamiche si riempirono contro Rushdie

Quando le piazze islamiche si riempirono contro Rushdie

«Il libro è un vero sacrilegio, una profanazione che non ha precedenti nella storia recente. Stravolge in modo volgare la storia dell’islam e ritrae a tinte fosche personaggi autentici come i profeti Abramo e Maometto. Persino le sante mogli del profeta sono trattate da puttane, mentre riti e credenze della nostra fede sono messi in ridicolo e descritti con parole false»: così parlò Manazir Ashan, direttore della britannica Islamic Foundation all’indomani dell’uscita in Gran Bretagna – e a ridosso del lancio in America – di Versetti satanici, il libro dello scrittore anglo-indiano Salman Rushdie. Siamo nel febbraio 1989 e a Bradford, nello Yorkshire, città a forte presenza islamica, avvengono i primi incidenti.

Subito gli ambasciatori a Londra di una serie di paesi musulmani chiedono al Foreign Office di far ritirare l’opera dalle librerie, mentre il libro viene messo al bando in India, Pakistan, Sudafrica, Egitto, Malaysia, Arabia Saudita, Sri Lanka. Nel sultanato di Oman viene vietata l’importazione di qualsiasi libro della Penguin, l’editore di Rushdie. Intanto Mughram al-Ghamdi, direttore del Centro culturale islamico di Londra, organizzatore della campagna contro lo scrittore, afferma: «È il libro più osceno che mai sia stato scritto da un nemico dell’islam: il profeta Maometto e la sua famiglia sono vivi, sono qui in mezzo a noi, e per loro siamo pronti a morire mille volte. La storia ci insegna che qui l’islam non è rispettato, qui è possibile calpestare i sentimenti della gente».

«Perché tanta collera? Perché Rushdie è un musulmano e, affermano suoi correligionari, ha “vilificato” il profeta. Lo ha fatto in poche pagine, narrando che Maometto voleva includere nel Corano tre deità femminili. Rinunciò a questi versi quando comprese che erano ispirati da Satana. Ma il libro è un’allegoria, un canto su ciò che unisce e ciò che divide i figli di Allah, una fantasiosa parabola che attinge a Garcia Marquez, a James Joyce, a Thomas Pynchon», scrive Mario Ciriello nella Stampa del 15 febbraio 1989.

La protesta infiamma il mondo islamico. A Islamabad, in Pakistan, scendono in piazza tre mila persone per protestare attorno al centro culturale americano. La polizia interviene per disperderli con cariche e lacrimogeni, ne ammazza cinque e ne ferisce diversi altri. Il risultato è che i disordini proseguono anche il giorno successivo e si estendono al resto del paese. Nel vicino stato indiano del Jammu-Kashmir la minoranza musulmana protesta vivacemente e la polizia, che non riesce a disperdere le centinaia di manifestanti che affollano il centro di Srinagar, si mette a sparate, il risultato sono un morto e 50 feriti.

Fino a questo momento le proteste sono più o meno spontanee, nessun’autorità religioso, neppure la più fondamentalista, è intervenuta per condannare Versetti satanici. Ma ora entra in scena l’ayatollah Ruhollah Khomeimi, il leader della rivoluzione islamica iraniana di una decina d’anni prima. Le sue parole ai microfoni di Radio Teheran sono di una durezza inaudita: «Voglio informare i fieri popoli musulmani in tutto il mondo che l’autore de I versi satanici, un libro contro l’islam, il profeta e il Corano, è ora condannato a morte, e con lui tutti coloro che lo assistono.

Tutti i musulmani, ovunque siano, hanno l’obbligo di giustiziare Salman Rushdie e i suoi editori. Se periranno durante la missione, i giustizieri diverranno martiri». Un incitamento all’omicidio e al martirio, insomma; poi Khomeini conclude: «Se un musulmano conosce i colpevoli ma non è in grado di ucciderli, ha allora il dovere di consegnarli al popolo per la punizione».

La fatwa del leader iraniano fa sì che Rushdie diventi, e rimanga per molti anni, una specie di sepolto vivo. Chiede, e ottiene, la protezione di Scotland Yard, estesa alla sua famiglia e agli editori. Annulla un viaggio negli Stati Uniti dove avrebbe dovuto tenere una serie di conferenze che l’avrebbero esposto al rischio aggressione. Cambia casa e non si sa dove vada a vivere, per anni non si fa vedere in pubblico.

L’Iran dichiara una giornata di lutto nazionale, mentre Sayed Abdul Quddus, segretario del Consiglio delle moschee, importante organizzazione islamica inglese, si affianca all’ayatollah: «Khomeini ha ragione. Rushdie ha torturato l’islam e dev’essere punito. Con la morte. Può salvarsi soltanto confessando la sua colpa. Altrimenti, merita il capestro». Nel 1991 Hitoshi Igarashi, traduttore giapponese di Rushdie viene ucciso a coltellate a Tokio, mentre Ettore Capriolo, il traduttore italiano, viene malmenato e ferito. Soltanto nel 1998, al momento di riavviare le relazioni diplomatiche con la Gran Bretagna, l’Iran dichiara di non cercare più la morte di Rushdie, ma non ritira la fatwa perché può farlo solo chi l’ha emessa.

In un’intervista rilasciata al New York Times Magazine, e ripubblicata in Italia dalla Stampa del 16 febbraio 1989, Salman Rushdie si mostra amareggiato: «Ci troviamo in una situazione nella quale un manipolo di estremisti definisce l’islam. E ciò che mi rende più triste è che costoro non fanno che alimentare lo stereotipo occidentale del musulmano arretrato, rigido e crudele che brucia i libri e minaccia di uccidere tutti i bestemmiatori».

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