Sergej Leonidovič Sokolov
(1°luglio 1911 – 31 agosto 2012)
Quanti numeri in questo maresciallo ucraino-russo-sovietico morto d’estate a 101 anni… Le sue 76 decorazioni, due in più dell’intera vita dell’Urss (74 anni), l’età di sua moglie, morta a 70 anni, e quindi di oltre una generazione più giovane, e poi quei tre anni – dal 1984 al 1987 – in cui è stato ministro della Difesa dell’uomo nuovo Michail Sergeevič Gorbačëv. Quando lo Stato socialista, e la sua forza militare, erano in terapia di rianimazione, tanto intensiva quanto inutile. Decine di quelle medaglie venivano da altri Stati, per lo più “fratelli”: Nord Corea, Polonia, Ungheria, Vietnam, Germania orientale, Mongolia, eccetera. Fra quelle sovietiche, una gli era stata appuntata “per impeccabile servizio”.
Era anche vero, ma un artista, o un narratore, un po’ surrealisti potrebbero partire da quella motivazione onorifica per rigirare l’impeccabile ritratto di Sokolov: a testa in giù, o sghembo, con il petto coperto di ori e nastrini, e, a fianco, una rappresentazione degli ultimi servizi resi allo Stato. La surrealtà sta nello scacco in quei servizi: la direzione diretta della guerra afgana (di cui lui è stato lo stratega e il tattico), e la distrazione di fronte a un inedito atterraggio sulla Piazza Rossa di un miniaereo – un Cessna – pilotato da uno studente tedesco: il giovane Mathias Rust era partito da Amburgo, aveva perforato ogni allerta dello spazio aereo di Mosca, calandosi sulla capitale come una metafora dell’immaginazione al volo che sbeffeggiava la gravità, e la sua forza, nella terra socialista.
Era il 1987, e le dimissioni di Sokolov sarebbero venute di conseguenza. Eppure, quanti caratteri quel maresciallo aveva accumulato prima di quella sberla, rimettendone in pista qualcuno anche nella più recente Russia sovietizzante: era un ucraino estraneo all’Ucraina indipendente, un ufficiale dell’Armata Rossa con un padre generale dello zar, un comandante di battaglioni e di truppe motorizzate contro i giapponesi nei tardi anni Trenta, e soprattutto sul fronte artico-finlandese, durante la guerra. È rimasto, fino all’ultimo (si parla di un centenario) “consigliere speciale” del ministero della Difesa, anche perché, nel Paese di Putin (ex Kgb), la categoria dei “sopravvissuti” dell’antico regime non coincide necessariamente con il loro accantonamento o con il loro riposo. Se poi tengono, ottantenni, novantenni, con le loro età da patriarchi e con qualche ex ruolo di potere o di prestigio, possono diventare forma e sostanza di qualcosa che ha fatto costantemente concorrenza alla fede ortodossa e a quella marxista-leninista: l’immortalità del patriottismo. Di quel tipo di patriottismo russo, sovietico, e poi di nuovo russo, e alla fine russo-sovietico: viscerale e diligente. Anche violento, o coraggioso.
Le decimazioni di Stalin non hanno toccato Sokolov: era un ufficiale prudente, e soprattutto, allora, di secondo piano. La destalinizzazione di Krusciov, e l’epoca di Breznev gli hanno fatto fare diligentemente il passo in più: maresciallo dell’Urss nel 1978. Il fallimento militare in quasi vent’anni di guerra afgana (ma l’invasione vera e propria comprende un quinquennio, dal 1980 al 1985), non gli ha comunque fatto mancare i pubblici riconoscimenti: «Eroe dell’Unione Sovietica, per il personale coraggio e l’eccellente comando dell’esercito dispiegato, insieme all’assistenza internazionalista alla Repubblica democratica dell’Afghanistan».
Linguaggio fasciato, di Stato, ma anche qualcos’altro, ad personam: il maresciallo Sokolov non sarebbe mai diventato, nei fatti, un sopravvissuto. Il volo microdannunziano di Mathias Rust (molto più simpatico di d’Annunzio) lo avrebbe fatto un po’scendere, ma quelle dimissioni riguardavano un’icona minore nella storia della difesa russa: non Kutuzov, né Brusilov, né Žukov, o Rokossovsky E cosi’, più che celebre e in seconda fila, Sergej Leonidovič Sokolov, ha continuato a vivere e a lavorare nel suo ambiente rappresentando in se stesso un intero secolo russo. Cristo Pantocrate lo ha tenuto in terra 101 anni. Le Pussy Riots, una volta libere, potrebbero immaginare un’improvvisazione su di lui.
Malcolm Wilde Browne
(17 aprile 1931 – 27 agosto 2012)
Fotografo e giornalista, di New York. Era partito studiando chimica, e avrebbe anche scritto di ricerca scientifica. Sua madre era quacchera e molto impegnata nei movimenti per la pace degli anni Cinquanta e Sessanta.
A Saigon, nel 1963 – pochi mesi prima dell’omicidio di John Kennedy a Dallas – una foto del tutto fuori norma mostrava un suicidio pubblico mai visto prima, rivelava una forma di opposizione civica, estrema, e sconosciuta, rendeva popolare nel modo più drammatico la fede buddista e il termine “bonzo”, immobilizzava il mondo di fronte a quell’immagine, e annunciava agli americani che cosa sarebbe stato “l’impegno” in Vietnam.
Nella foto – scattata da Malcolm Browne – il monaco Thích Quảng Đức è quasi avvolto dal fuoco che si è autoappiccato con una tanica di benzina, e sta morendo in un volontario rogo di strada. Fanno da sfondo, ma non lontani dall’uomo, una macchina con il cofano anteriore sollevato, e una piccola folla di monaci, in parte fermi dietro all’auto. Solo sul lato sinistro, qualcuno di loro sembra correre, ma senza direzione. La tanica è visibile in mezzo alla strada, e Thích Quảng Đức, seduto e in gran parte ancora intatto (un profilo, quasi a tre quarti, fino al busto) sembra parlare, impassibile, alle fiamme che lo stanno investendo.
Dopo quella foto, e quel giorno, il Vietnam del Sud sarà una prima pagina costante: si saprà dell’opposizione buddista alla dittatura della famiglia cattolica dei Diệm (sostenuti dagli Stati Uniti, ma eliminati, nello stesso 1963, da un colpo di Stato interno, con la Cia benevola), si vedrà quella forma di auto sacrificio ripetersi con altri monaci. Browne era a Saigon per l’Associated Press: era stato reporter per il giornale Stars and Stripes, durante la guerra di Corea, per due anni. Con la foto del monaco Đức seduto e in fiamme, avrebbe vinto il Pulitzer.
È una delle immagini più incommentabili della storia, e non solo della storia della fotografia. In un’altra serie di poche foto di un’altra Indocina (quella francese in guerra contro i vietminh) Robert Capa fa vedere pochi soldati francesi in perlustrazione: sono le sue ultime immagini, perché morirà saltando su una mina, al seguito di quel drappello. Non c’è nesso immediato fra la foto di Browne e quelle di Capa: se non per la drammatica “originalità” con cui si poteva morire allora nel Sud Est Asiatico (i media lo chiamavano così) in guerra continua. Malcolm Browne sarebbe tornato al giornalismo dopo il 1968: per il New York Times, prima in America latina, e poi come reporter nella Guerra del Golfo (1991). È morto a 81 anni, nel New Hampshire.