Se ne sono andati (il comunista e la giraffa)

Se ne sono andati (il comunista e la giraffa)

Santiago Carrillo Solares

(18 gennaio 1915 – 18 settembre 2012)

A 97 anni, era uno spagnolo delle Asturie (figlio di un dirigente socialista) che poteva dire di aver vissuto tutte le Spagne del Novecento: la vecchia monarchia, la seconda repubblica e la sua difesa durante la guerra civile del 1936-39, l’opposizione a Francisco Franco organizzata da fuori in oltre trent’anni d’esilio, la democrazia ex novo, nel 1975, insieme alla vecchia monarchia sapientemente rimessa in funzione. Uno spagnolo a sorpresa: negli anni Settanta inoltrati conquistava il primo piano come uno dei demiurghi dell’ “eurocomunismo”. Un’invenzione politica promettente e con una sua eccentricità pop: era un prodotto eurocomunitario senza valori aggiunti economici o finanziari, nasceva come possibilità politicamente adulta dopo l’orrore del colpo di Stato in Cile nel 1973, prendeva sostanzialmente di mira il versante sovietico della guerra fredda, e aveva nei suoi tre creatori (oltre a Carrillo, l’italiano Enrico Berlinguer, e il francese Georges Marchais) dei segretari-politici già molto incollati all’Urss e alle sue direttive. Come Juan Carlos di Borbone, re della nuova Spagna, anche gli eurocomunisti erano un serio “dernier cri” che si metteva alla prova.

La prima, diffusa, domanda sull’esperimento era quasi ingenua: quanto erano complessivamente convinti quei tre segretari dell’ “esaurimento della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre?” (quest’espressione denotava il faticoso coraggio del suo autore, cioè di Berlinguer, il più convincente del gruppo). La seconda incognita riguardava l’avvenire di quell’invenzione, anche rispetto alle storie nazionali dei tre Paesi di quei segretari (Italia, Francia, Spagna), e ai loro caratteri.

Marchais risultava un appiccicato alla nuova formula più per forza di cose che per amore riformista, mentre Berlinguer, il capofila (anche per la forza elettorale dei comunisti italiani), avrebbe avuto l’originalità di un precursore: con tutti suoi limiti, il partito democratico di oggi – un po’ socialdemocratico, un po’ stagnante, e molto ambiziosamente americano – deriva da quello squarcio meditato.

Santiago Carrillo faceva la parte dell’invitato da una periferia comunque interessante: di “caballeros” ex rivoluzionari, ex combattenti antifascisti (e in parte massacrati, o torturati, dal regime del Generalissimo), ex esiliati, ed ex devoti alla ragione di Stato sovietica. Una volta seppellito Franco, avrebbero avuto l’intelligenza di accettare tutto: la democrazia borghese, il re Borbone (già cresciuto dal Caudillo), la primogenitura riconosciuta al partito socialista. Insomma, il rientro in Europa da occidente (la Spagna è tutta ad ovest) con gli alamari della laicità della politica, e l’elaborazione del passato prossimo orientale (Mosca è decisamente ad est) attraverso il nuovo décor eurocomunista.

La forza di Santiago stava nella sua statura minore (in fatto di voti, oltre che fisica) e nella sua hispanidad periferica: più agilità calcolata nel parlare dei tempi andati, e nel sorvolare, su certi temi, con la prontezza dell’oblio o della dismissione di responsabilità. Al New York Times avrebbe dichiarato il suo dilemma, che cosa fare del “corpo” in cui erano cresciuti lui e un bel po’ di militanti. Cioè del partito comunista: «Dovevamo decidere se seppellirlo per sempre, o conservarlo imbalsamato».

A Mosca, oggi, quel dilemma è stato risolto in modo immaginifico: la mummia simbolica (Lenin) è rimasta aperta al pubblico come un’insegna ormai inoffensiva, per permettere a una sostanza vitale – cioè allo stile dell’ex partito – di circolare come un Omg impermeabile a ogni tipo di interramento. A Madrid, e in Europa, poco meno di 40 fa, il piccolo Carrillo era riuscito in qualcosa di ancora più mediatico: essere credibile quando pochissimi credevano al rinnovo sostanziale delle sue radici (un contrario postmoderno di Silvio Berlusconi, personaggio incredibile ma già creduto e votato da moltissimi). Si sapeva del suo impegno, e del suo coraggio, a 21 anni, nell’organizzare una milizia armata a difesa della capitale, con i falangisti alle porte. Si venne anche a sapere che quella milizia aveva raggruppato qualche migliaio di prigionieri “di destra” per dislocarli, con un bel po’ di autobus, fuori città: sarebbero stati tutti fucilati nei villaggi di Paracuellos del Jarama e Torrejon de Ardoz. Carrillo si difendeva dicendo che tutto quello che succedeva fuori dalla capitale – durante quell’ultimo assedio – «oltrepassava le sue responsabilità e il suo controllo».

Era probabilmente vero e, insieme, poco credibile. Soprattutto nell’immediata Spagna postfranchista, e nei convegni europei sull’eurocomunismo, era ritenuto urgente concentrarsi sull’attualità e sul perfezionamento dei tempi nuovi. D’altronde, Santiago non strisciava neanche troppo sul passato, almeno su quello evidente: era stato stalinista, poi allineatissimo alla repressione in Ungheria nel 1956, e segretario del Partito comunista spagnolo dal 1960. Diceva che «i metodi sovietici erano, allora, un comprensibile inferno». Nei primi anni Ottanta, il regno di Juan Carlos, ormai abituato a votare non dava nessuna soddisfazione elettorale a quel partito: più che minore, e con Carrillo costretto a dimettersi nel 1982, dati quegli insuccessi. Fino alla sua morte, nei dintorni dei cento anni, ha condiviso con il re il marchio di una longeva sopravvivenza. Ma, per ora, Juan Carlos è stato più saggio, e più fortunato. 

La giraffa di Imola

Anche lei altissima per antonomasia, e piccola per età: hanno detto che era un cucciolo. È morta per sfinimento, o per mala sanità veterinaria, o per shock anafilattico dopo che le avevano sparato un sedativo bomba per riportarla nel claustrofobico circo da cui aveva cercato di prendere il largo e il lungo. La sua fuga, e il suo scorrazzare incerto ma libero sui marciapiedi e fra il traffico di un’antica cittadina delle Romagne, diventerà un’immagine pop. La sua morte, e la sua vita, sono state strazianti. Ma oggi si può renderle istruttive.

Se fosse vivo La Fontaine potrebbe trarne uno dei suoi apologhi fulminanti. E tutto aggiornato ai tempi, e ambientato, per caso, nell’Europa mediterranea. Una creatura africana – cioè extracomunitaria – finita per forza in uno dei più tristi luoghi di raccolta e di detenzione, messi in piedi (con tanto di dinastie impresariali) per show-business spericolati o sbalorditivi, dove, si dice, i bambini si divertano. O si distraggano, incollati nell’ansia: il circo, appunto, che, nella sua sostanziale mestizia, presta il suo nome anche a quanto di meno serio, o divertente, offre oggi la vita pubblica. Si dice “circo mediatico”, o “circo della politica”, eccetera.

Gli animali più voluminosi o più lunghi (elefanti, leoni, giraffe) vengono lì deportati, truccati, rimbecilliti, per poi fare una specie di fine tipo pazienti del “nido del cuculo”. E senza neanche la coscienza della loro condizione pseudoartistica – come gli umani clown, o i poveri funamboli – ma con una insopportabile sofferenza fisica, date le loro proporzioni, e la loro memoria istintiva verso gli spazi aperti. La Fontaine potrebbe apologare su come un’umanità “da circo” sia capace di perdere (da secoli) il senso delle proporzioni: di se stessa di fronte alla quantità, o alle misure delle sue vittime.

In questo caso, di una povera giraffa recintata in perimetri vergognosamente micragnosi, o di un povero pachiderma con gli occhi bistrati d’argento, o di un digraziato leone ridotto a un ruggito semiafasico. La perversione del circo, rispetto allo zoo, è che dovrebbe far ridere: se Omero, alla fine dell’Odissea non avesse già poetato abbastanza sul “riso dei Proci” (una magnifica invenzione da anticamera mortuaria), si potrebbe inventare qualche altra immagine sull’argomento. Ma forse La Fontaine (e, in esteso tutti noi, o chi vuole, oggi) potrebbe suggerire una morale sull’impulso ad addomesticare: cioè a recintare con qualsiasi cosa la coscienza delle proprie possibilità o, nel caso degli animali, l’abitudine alle proprie abitudini.

La giraffa di Imola è istintivamente scappata dal “circo”, ha girato per un po’ sulle strade di una delle città della Formula Uno, ha fatto uno show spericolato ma libero, e, alla fine è morta per un’overdose. Come un’altissima mannequin griffata a chiazze, che non ne voleva più sapere delle sfilate.