Jerome Philip Horwitz
(16 gennaio 1919 – 6 settembre 2012)
Chimico e ricercatore americano, di Detroit. Aveva 93 anni, e, da ragazzo, avrebbe scelto la ricerca scientifica per interesse puro, cioè senza immaginarsi un futuro ricco di brevetti e di dollari derivati. A latere, era deciso a non fare lo stesso mestiere del padre Louis Horwitz, industriale di successo nel campo dell’avicoltura, cioè dell’allevamento intensivo di polli. Jerome Philip non avrebbe percepito nessuna royalty dalle sue intuizioni applicate: eppure aveva messo a punto un farmaco nuovo, l’AZT, nel 1964.
Un risultato collegiale, insieme a un gruppo di ricercatori della Wayne State University di Detroit: come spesso succede a chi esplora, Jerome capofila, gli altri testavano un tragitto pensando a un certo punto d’arrivo, ma quel percorso li avrebbe fatti conquistare un traguardo diverso, e imprevisto. Nel caso specifico, cercavano una cura risolutiva contro il cancro, e hanno creato il farmaco pioniere contro l’Aids.
Cioè il primo componente chimico che avrebbe permesso di prolungare la vita a milioni di uomini e donne: aggrediti da quella sindrome, decimati, e socialmente martirizzati come contagiosi peccatori. In quegli anni Ottanta, complessivamente definiti “del riflusso”. La biografia dell’AZT, nato nel ventennio precedente, avrebbe accumulato una fila di passaggi e tutti importanti.
Il primo coincide con la sua composizione, ideata soprattutto da Horwitz: un blocco di materiale genetico sinteticamente creato, da iniettare nelle cellule cancerogene, con un’azione da “cavallo di Troia” (un’immagine efficace, del New York Times). Il secondo descrive un fallimento, o uno sbarco inutile: quell’azione testata e ripetuta non si rivelava, in nessun modo, antitumorale. Il terzo combacia con una scoperta: quei componenti chimici messi insieme seguendo la struttura del DNA, avevano invece successo contro alcune malattie come l’epatite, e gli herpes più distruttivi. Che spesso manifestavano l’insorgenza immunodeficitaria. Il quarto è un passaggio storico: nel 1986, l’AZT veniva “approvato”dal governo federale degli Stati Uniti come “primo trattamento sperimentato per prolungare la vita dei pazienti colpiti dall’Aids”.
Il quinto descrive una risolutiva filiazione: insieme all’AZT, due altri componenti, sempre messi al mondo da Jerome – la didanovina e la stauvidina – avrebbero formato la base dei cocktail di antiretrovirali che dal 1996 permettono di vivere tout court a milioni di sieropositivi, o con la sindrome già conclamata (questa salvezza è concessa, per ora, alla sola umanità “occidentale”, i cui Stati possono permettersi il saldo astronomico dei brevetti stabilito dalle case farmaceutiche, e quindi la distribuzione gratuita dei farmaci).
La biografia di Jerome Horwitz, partita dal rifiuto del pollame industriale e di un immediato guadagno, si connota per un sostanziale non-complesso del denaro: sua moglie Sharon ha informato, post-mortem, come “he did not earned a penny for making the AZT compound”. Aggiungendo, “he never achieved much fame”.
Detto bene: un po’ di notorietà, non molta, il dottor Horwitz l’ha avuta con un “Person of the Week” brevemente decretato dai giornali, al tempo dell’approvazione federale del suo farmaco. Approfittando modestamente di quella notorietà, lo scienziato informava, in poche interviste, come la compagnia farmaceutica Burroughs Wellcome (che aveva testato l’AZT, attribuendosi subito il brevetto) avesse deciso una donazione a un centro di ricerca affiliato alla Wayne University, per istituire una borsa di studio a nome di Jerome Philip Horwitz. Ma quei 100 mila dollari – e non di più – non bastavano né a fondare, né a mantenere una stabile “professorship”. Jerome avrebbe commentato: “la taglia di quel regalo, dati i profitti che erano derivati, mi ha fatto arrabbiare”. Ma solo “for a while”, per un po’.
Jimmy Walter
(1930 – 20 settembre 2012)
Musicista francese, jazzista a Parigi nei primi decenni del dopoguerra: suonava il piano, componeva, faceva l’accordatore, e l’accompagnatore di poeti, cantanti, attori. Nei cabaret e nei teatri. Aveva il dono della creazione immediata, e il destino ha stabilito che il suo nome anagrafico ricalcasse al contrario quello di un genio dell’intuizione: si chiamava Benjamin Walter, ma è evidente che non abbia usato questa coincidenza come un’insegna per far carriera. Ha scelto presto di essere “Jimmy”: suonava perfetto, all’americana, o semplicemente gli piaceva. Avrebbe accompagnato, fra gli altri, anche Billie Holiday. A poco più di 80 anni, parlando alla radio, faceva scorrere una voce non toccata dal tempo.
Parlava di un altro secolo, a Parigi – sessanta, settant’anni fa – e quel timbro da trentenne azzerava la distanza: fra chi oggi può rricordarsi del cabaret “Lapin agile” di Montmartre, o del doppio talento di Serge Reggiani (cantante e attore), o del genio multiplo di Boris Vian (che scriveva, traduceva, cantava e sceneggiava), e chi comprensibilmente non ne sa niente. Interrotto, ogni tanto e con molta grazia, dall’intervistatrice, Jimmy faceva una pausa (i musicisti bravi insegnano ad ascoltare il silenzio) riprendendo la memoria come gli veniva, o da dove voleva lui.
Ha raccontato soprattutto di Boris Vian: si erano incontrati nel 1954, e capiti. In una giornata, o poco più. «Mi dava i testi e ci lavoravo sopra. Per essere puntuale con me che abitavo a due chilometri da lui, era capace di tradurre in una notte un poliziesco americano. Così era più libero. Ridevamo in continuazione, un fou-rire, sempre. Anche se le nostre canzoni vendevano poco, e i suoi libri facevano fatica. Non parlava mai della sua malattia – un cuore troppo spesso – e non si immaginava quarantenne. Sarebbe morto a 39 anni».
Pausa brevissima, cioè silenzio dell’intervistatrice e dell’intervistato. Poi Jimmy Walter riprendeva, col suo registro da gioventù non bruciata: «Avevamo le stesse idee antisociali…». L’intervistatrice interviene: «Antisociali?». Risposta: “Sì, come degli anarchici passivi, senza bombe». Intervento ulteriore: «Vuol dire, anarchici pacifici, no?». Pausa fulminea, e risposta condiscendente: «Se proprio vuole…». Walter concludeva con una sua canzone – testo di Vian, naturalmente – parlandone, o citandone dei pezzi, senza musica. Si chiama “Sans Blague”, senza scherzi, o anche “davvero”. Oltre ad essere molto bella (e da ascoltare, se possibile) è un controcanto sicuro, anche antisociale.
Buono per tutti e in ogni tempo. Oggi in particolare. Questo è il testo, non tradotto in italiano, ma immediatamente comprensibile.
On lit tant de choses / Moi je ne sais plus / Le noir et le rose / Sont confondus
On dit tant de choses / J’écoute plus rien / Toi, ça me repose / Et je me sens bien
Sans blague / Est-ce que tu crois vraiment / Qu’on va s’aimer tout le temps / Ne mens pas
Sans blague / C’est pas dans des romans / Que t’as trouvé tout ça / Dis le moi /
Parle / Répète encore une fois / Comment cela sera / Quand on vivra ensemble / Parle/ A quoi cela ressemble / Deux amoureux d’un soir / Au bout de six mois /
Sans blague / Si le jour et la nuit / ça reste aussi joli / Je serai hereux / Sans blague
Si jamais ça ne finit / Emmène-moi dans ma vie / Avec toi