Una donna schietta e ruvida, scaltra e tenace. Un personaggio capace di distinguersi per la propensione al dialogo e di presentarsi libera da etichette di partito, accreditandosi come possibile leader del centrodestra post-berlusconiano. Orgogliosa in una forma viscerale, al punto di reagire con gli artigli alle accuse provenienti anche dal proprio schieramento politico. Sono questi i tratti salienti della personalità di Renata Polverini, la ragione di forza e allo stesso tempo di profonda vulnerabilità della presidente del Lazio che evoca lo spettro delle sue dimissioni se l’assemblea regionale non realizzerà subito un taglio drastico sui costi della politica. Un pacchetto di austerity che coinvolge il numero delle commissioni, degli assessori e delle auto blu, e le enormi somme per i gruppi consiliari. Nella formazione del carattere della governatrice un ruolo cruciale lo ha esercitato la sua lunga e appassionata militanza nel mondo sindacale e nella sua componente storicamente più emarginata, la Cisnal poi Ugl nata nel terreno culturale e sociale della destra missina.
L’atmosfera delle battaglie a difesa dei lavoratori Polverini l’ha respirata fin da giovanissima in famiglia, essendo figlia di una delegata Cisnal oltre che legata all’insegnamento e alla parabola del suo fondatore Ivo Laghi, ricordato di recente con la voce rotta dall’emozione. Con un robusto bagaglio formativo e grazie a una spiccata forza di volontà, nel 1996 diventa responsabile delle relazioni internazionali e comunitarie del sindacato, in cui due anni più tardi entra nella Segreteria generale come responsabile della federazione del lavoro terziario. Numero due dell’organizzazione tra il 1999 e il 2005, affronta le principali vertenze unitarie, da Alitalia alla Fiat, da ThyssenKrupp al rinnovo del contratto per il pubblico impiego. È in questo passaggio delicato che riesce a conquistare la fiducia degli operai oltre alla stima sincera da parte degli esponenti di spicco di Cgil, Cils e Uil
Così, al congresso del febbraio 2006, viene eletta alla guida dell’Ugl succedendo a Stefano Cetica. E un’associazione fino a pochi anni prima confinata nel ghetto dell’isolamento politico-ideologico si libera dalla nicchia e acquista un protagonismo di primo piano nelle trattative sindacali più importanti, in cui Renata compare sempre più abitualmente a fianco degli altri leader confederali. Animata da profonda amicizia per Gianfranco Fini, rivela grande autonomia e onestà intellettuale ogni volta che è necessario criticare le iniziative del governo Berlusconi.
A marzo 2009 conduce davanti al Viminale un migliaio di poliziotti armati di fischietti e bandiere per protestare contro i tagli alle forze dell’ordine. Schierandosi decisamente a fianco dei lavoratori in difficoltà e delle categorie più penalizzate, assurge a rappresentante autentica di una “destra sociale” contro la destra politica. E si spinge oltre su questo terreno, arrivando a condividere per ben cinque volte gli scioperi generali promossi dalle confederazioni sindacali nei confronti del Cavaliere. All’indomani di iniziative intraprese con tanta fermezza, Walter Veltroni tenta di convincerla a candidarsi nelle file del Partito democratico. Ma lei rifiuta l’offerta.
Se le attestazioni di stima registrano una crescita continua, soprattutto da parte di esponenti dell’opposizione politica e sociale, allo stesso periodo risalgono le prime difficoltà. Nel gennaio 2010, la trasmissione televisiva Report e i giornali Libero ed Europa accusano il sindacato guidato da Polverini di avere gonfiato il numero degli iscritti per ottenere un maggiore peso negoziale al tavolo con gli altri sindacati e negli organismi ed enti previdenziali.
La sua replica alla denuncia, contenuta in un’intervista rilasciata pochi giorni dopo al Riformista, chiama in causa la responsabilità di tutte le organizzazioni rappresentative dei lavoratori. A suo giudizio, infatti, l’Ugl non avrebbe agito in modo differente dagli altri sindacati. È la prima vera rottura nel fronte confederale. Le reazioni di esponenti della Cgil e della Cisl sono durissime, e a Palazzo Madama i senatori del Pd Tiziano Treu, Lionello Cosentino e Giorgio Roilo, presentano un’interrogazione parlamentare al responsabile del Welfare Maurizio Sacconi per ricevere spiegazioni e chiarimenti sulla vicenda. Ma la richiesta non ottiene una risposta esauriente.
Verso la fine del 2009 avviene il salto nell’agone politico. È il 16 dicembre quando Renata ufficializza la propria candidatura a presidente della regione Lazio per le elezioni previste nella primavera 2010. Focalizzando il suo impegno su un incisivo risanamento della sanità locale, che nell’arco di dieci anni e di due legislature di colore politico opposto ha prodotto un debito di 25 miliardi di euro, riesce ad aggregare attorno a sé un ampio schieramento costituito dal Popolo della libertà, dall’Unione di centro, dalla Destra di Francesco Storace e da una Lista civica a suo nome. Movimento che si rivelerà decisivo nella fase più difficile e drammatica della campagna, quando gli esponenti del Pdl, escluso dalla tornata di voto per il ritardo nella consegna delle firme, invita i propri elettori a far convergere i suffragi sui “candidati civici”. È l’ultima prova di compattezza della formazione principale del centrodestra, coinvolta proprio in quelle settimane nello scontro fratricida tra il Cavaliere e Fini. Entrambi infatti, almeno per la competizione nel Lazio, decidono di deporre l’ascia di guerra e raggiungono un solido accordo sulla figura della sindacalista.
A giocare una parte decisiva nella costruzione della sua immagine e del suo prestigio mediatico, è senza dubbio il numero impressionante delle sue partecipazioni alla trasmissione tv Ballarò, bandiera dell’informazione progressista di Rai Tre negli anni dell’opposizione al predominio berlusconiano. Il talk show animato da Giovanni Floris, interessato a ospitare e amplificare la voce di una destra sindacale critica nei confronti del governo del Cav., fornisce a Polverini una risonanza televisiva con pochi paragoni, offrendole un sicuro trampolino di lancio per le sue ambizioni politico-elettorali.
È sufficiente ricordare come a fronte delle sue 19 apparizioni in tre anni nel programma del martedì sera, la sua antagonista per la presidenza del Lazio, la leader storica radicale Emma Bonino, che si presenta alla guida di uno schieramento imperniato sul Partito democratico, è stata invitata quattro volte nello stesso periodo di tempo. Un’evidente disparità di trattamento che non deve stupire più di tanto, alla luce della radicata e antica ostilità culturale di gran parte dell’universo della sinistra nei confronti delle iniziative e dell’esperienza liberale e radicale. Avversione che avrebbe alimentato in numerosi rappresentanti democratici la propensione a preferire la vittoria di una personalità del mondo sindacale con una visione economico-sociale molto più consona alle proprie convinzioni rispetto all’affermazione di una strategia limpidamente liberista e “americana”. Le parole pronunciate dall’ex direttrice dell’Unità Concita De Gregorio nel novembre 2011, «Il Pd ha perduto di proposito le elezioni regionali per favorire Polverini e danneggiare Bonino», ne costituiscono una lampante conferma.
Ma non sono solo la coesione della compagine conservatrice e l’indiscussa proiezione mediatica le ragioni di forza della campagna della segretaria dell’Ugl. Per scongiurare il rischio dell’avanzata della “visione laicista” incarnata da Emma Bonino e allontanare il fantasma di una “politica rivoluzionaria nel campo delle libertà civili e della ricerca medico-scientifica”, l’universo ecclesiastico promuove una massiccia e capillare mobilitazione a sostegno di Polverini. La quale, fino ad allora fautrice di un approccio liberale e tollerante alle problematiche eticamente rilevanti, si trasforma nell’interprete privilegiata delle indicazioni della Chiesa. La alte gerarchie vaticane, timorose di fronteggiare una governatrice radicale nella regione che accoglie la capitale del cattolicesimo, guidano le parrocchie in una battaglia serrata sul territorio. Un sacerdote della chiesa romana di San Tommaso ai Cenci, don Stefano Tardani, giunge a scrivere ai fedeli e alle coppie che hanno intrapreso i suoi corsi prematrimoniali una lettera via e-mail esortandoli a votare per Renata Polverini, «poiché lei difende i valori della vita e perché chi crede nell’amore e nella famiglia non può appoggiare Emma Bonino».
La straordinaria mobilitazione riesce a conseguire l’obiettivo. Al termine di un drammatico spoglio dei voti, che vede un continuo capovolgimento di posizioni e una spettacolare e inesorabile rimonta nelle province della campionessa della “destra sociale e cristiana” sulla radicale vittoriosa a Roma, il 30 marzo Renata Polverini trionfa nella corsa per la guida della Regione con il 51,14 per cento contro il 48,32 dei consensi.
È proprio in quel momento che cominciano i due anni e mezzo forse più difficili nella vita di un personaggio che ha fatto della tenacia un motivo di orgoglio e di dignità. Nel corso del 65° anniversario della Liberazione, il 25 aprile, subisce le accese contestazioni da parte dei partecipanti alla manifestazione organizzata a Porta San Paolo, dove ebbe inizio la Resistenza romana. Verso il palco vengono lanciati oggetti, slogan e insulti, a partire dall’appellativo di “fascista” rivolto a gran voce contro la governatrice. La quale, assieme al presidente della Provincia Nicola Zingaretti, colpito al viso da un arancia, è costretta ad abbandonare la celebrazione. Ma se la solennità e la portata storica del 25 aprile le suggeriscono una scelta di silenzio e di dignitoso pudore, altre occasioni pubbliche le offrono uno scenario appropriato per dare vita a performance ed esibizioni di segno diametralmente opposto.
È il 26 maggio del 2011 quando nel piccolo paese di Genzano, nel cuore dei Castelli romani, Polverini reagisce con veemenza alle grida accanite di quaranta simpatizzanti di sinistra. Ai contestatori che le urlano “Vergogna, vergogna!”, reagisce come una furia, brandendo il microfono: «Questa è la democrazia e ve ne dovete fare una ragione. Fatela finita, aspettate lì, che quando scendo discutiamo noi». E nel crescendo di toni e dello scontro verbale si rivolge direttamente a uno di loro, mettendo a nudo con un linguaggio verace e sanguigno tutta la fierezza della sua lunga militanza politico-sindacale: «Con me caschi male. So’ della strada come te, le manifestazioni le organizzavo quando tu c’avevi i calzoni corti. Non mi faccio mettere paura da una zecca come te». Mentre a un altro giovane che sta riprendendo con la videocamera la sua esibizione, grida: «Lo sai che ci faccio con quella? Mo’ scendo e te lo dico».
Passata in rassegna con poche e incisive espressioni l’intera stagione del conflitto ideologico degli anni Settanta, conclude il suo intervento con una precisa esortazione ai manifestanti: «Fatemi il fottuto piacere, andate a casa. A chi pensate di mettere paura: questa è la giunta Polverini, non ho paura nemmeno del diavolo». Un invito che trova puntuale risposta nella decisione dei suoi “avversari” di sovrapporre al “Fascista, fascista” l’intonazione dell’Inno di Mameli e poi dei cori “Bandiera rossa” e “Bella ciao”, rigorosamente a pugno chiuso. Con un’immediata contro-reazione nel saluto romano opposto dai supporter della governatrice.
Pochi giorni prima, sia pure in una forma molto più sobria e contenuta, l’ex segretaria dell’Ugl replica con vigore alle polemiche lanciate da un gruppo di militanti del centrodestra contro il piano di rientro del deficit sanitario regionale. Teatro dello scontro è la cittadina di Sora, in provincia di Frosinone, dove Polverini accusa il Pdl e la Destra di essere corresponsabili del gigantesco passivo accumulato a partire dal 2000. Anno di elezione alla guida del Lazio di Francesco Storace, che risponde in maniera lapidaria: «Ognuno è libero di dire le sciocchezze che vuole».
Ma le parole più laceranti e dolorose per l’universo politico a cui Renata pure orgogliosamente appartiene da una vita vengono pronunciate mercoledì 3 agosto 2011. Il giorno prima Giancarlo Galan, ministro dei beni culturali nel governo guidato dal Cavaliere, critica duramente il piano casa varato dalla Regione Lazio ritenendolo “incostituzionale” poiché «mette a rischio la tutela del patrimonio artistico, storico e monumentale italiano e la difesa delle coste tirreniche». Prendendo la parola in Consiglio regionale e rivolgendosi all’opposizione che ha ingaggiato una battaglia frontale contro il provvedimento, lancia un’accusa finalizzata a lasciare il segno nei propri avversari: «Questa assemblea oggi si è messa al servizio del governo Berlusconi e lo avete fatto voi, non noi. Avete detto che un ministro della Repubblica può interferire in un’assemblea legislativa sovrana ed eletta dal popolo. Questo è quello che ha fatto l’opposizione, siete berlusconiani!». E lo ripete con vigore: “Berlusconiani!” Un’invettiva che alle orecchie delle forze di centrosinistra risuona come il peggiore degli insulti, segno di un’incredibile spregiudicatezza e abilità nell’uso mediatico del vocabolario politico.
Al termine di quella infuocata seduta e di otto giorni di intenso dibattito, l’aula della Pisana approva il progetto edilizio presentato dalla Giunta. Una delle rare iniziative portate a compimento dal governo regionale in oltre due anni di mandato. Perché, a fronte di un indubbio protagonismo televisivo e di una lunga serie di esternazioni polemiche e vulcaniche, il patrimonio di risultati che oggi può vantare la governatrice è assai limitato.
Annunciato solennemente dalla Giunta come «un grande passo in avanti voluto dalla gente, che offre più abitazioni, più edilizia e più lavoro attraverso regole più flessibili e più semplici«», il piano casa ha provocato nell’opposizione e nelle più autorevoli associazioni ambientaliste l’accusa di fornire il via libera alla corsa speculativa selvaggia e indiscriminata dei “costruttori amici”, incoraggiando lo stravolgimento violento del territorio. Un disco verde, denunciano i Radicali, «a un nuovo sacco di Roma e del Lazio. Basti pensare che le aree industriali potranno essere trasformate, in deroga ai piani regolatori, in nuovi quartieri privi di servizi capaci di ospitare fino a 600 persone».
Se il provvedimento in materia abitativa è andato in porto, ben più travagliato è il percorso che accompagna i piani di razionalizzazione e risanamento della sanità regionale, messi a punto per il triennio 2010-2012 da una presidente che è anche Commissario straordinario per la salute nel Lazio. Un progetto basato sulla riconversione di oltre 2.800 posti letto e di 24 piccoli ospedali delle provincia per trasformarli in «nosocomi più vicini alle esigenze del territorio, grazie a punti di primo soccorso, continuità assistenziale, guardia medica, diagnostica, specialistica ambulatoriale, laboratorio». La riorganizzazione della pianta delle strutture mediche comporta la chiusura di 10 piccoli centri ospedalieri, a Amatrice, Ronciglione, Montefiascone, Sezze, Gaeta, Ceccano, Zagarolo, Rocca Priora, Ariccia e in parte Ostia. E l’eliminazione di quasi 2.500 posti letto che saranno riconvertiti in residenze per soggetti non autosufficienti, malati cronici e affetti da patologie degenerative. Finalità dell’operazione è, nelle intenzioni della presidente, il risparmio complessivo di 1 miliardo e 200 milioni di euro necessario per avviare la riduzione di un debito sanitario colossale, e dimostrare a Palazzo Chigi la piena capacità della Regione di perseguire il risanamento economico e impiegare a tale scopo i Fondi per le aree sottoutilizzate.
Più che dall’opposizione locale, che per bocca del capogruppo del Pd alla Pisana Esterino Montino denuncia la «desertificazione del tessuto medico provinciale», le ragioni di preoccupazione per la Giunta provengono proprio dai tecnici del governo nazionale. Un timore ampiamente fondato, visto che proprio a giugno di quest’anno l’esecutivo guidato da Mario Monti ha bloccato i finanziamenti statali per la sanità del Lazio a causa dei «gravi ritardi nell’attuazione del piano anti-deficit». Se rispetto al miliardo e 600 milioni di euro del 2009 e al miliardo e 50 milioni del 2010, nel 2011 il disavanzo è sceso a 791 milioni, la messa in ordine dei conti pubblici appare agli esperti del Tesoro ancora molto lenta. Ritardo ancora più grave viene imputato alla strategia del governo regionale nell’adozione e nell’applicazione di una moderna pianificazione sul tema rifiuti, che a livello regionale e non solamente romano ha ormai assunto dimensioni emergenziali.
La questione cruciale è legata all’individuazione dei siti che dovrebbero sostituire la struttura obsoleta di Malagrotta. Polemiche e contestazioni delle comunità locali e criticità ambientali ampiamente riscontrate hanno provocato l’abbandono del progetto di discariche a Riano Flaminio e a Corcolle, centro assai vicino a Villa Adriana, proclamata nel 1999 dall’Unesco patrimonio dell’umanità e della nostra identità nazionale.