«Speriamo che alle elezioni vinca il Pd così il finanziamento pubblico ai giornali torna alla grande». La voce circola nei giornali e anche in Fieg, la federazione degli editori. Sarà un caso ma i democratici si guardano bene dal citare il tema, forse sapendo che è meglio che molti giornalisti la pensino così e magari, più o meno apertamente, facciano il tifo per Bersani, Bindi e compagnia cantante. Solo che, a parte il gioco politico implicito, a guardare quanto sta accadendo in giro per il mondo, non c’è prioprio nulla da entusiasmarsi al riguardo.
«La nuova moneta del giornalismo è diventata l’autenticità più che l’autorevolezza» dice Mark Little, fondatore di Storyful, l’agenzia di stampa nata nel 2010 che di mestiere verifica i contenuti dei social per il New York Times, Abc e tante altre testate. E si capisce perché lo dica: nel giornalismo social il valore è quello dell’autencità perché la manipolazione è diventata estremamente semplice. Il direttore della fotografia dell’Associated Press, Santiago Lyon, lancia infatti l’allarme sulle foto: «i software non sono più in grado di capire in tempo se un’immagine sia stata manipolata». L’ultimo numero dei Nieman Reports di Harvard riguarda questi temi mentre alla Columbia si discute di come debba essere costruito un articolo nella fase attuale in cui, ad esempio, si può modulare esattamente la quantità di background necessaria in base al profilo del lettore. Un problema su cui si ragiona da quasi dieci anni, almeno da quando proprio AP lanciò un servizio sperimentale chiamato Asap (As soon as possible), e che ora diventa dirimente.
Dirimente? Già ma in un momento in cui finalmente si discute di come ricostruire l’informazione, in un momento dove c’è tutto da inventare, creare, sperimentare, in un momento dove sulla, scia del dibattito sui commons di Elinor Ostrom, si inizia a ragionare di un “servizio pubblico” che non significhi più “statale”, in un momento dove la separazione fra il contenuto giornalistico e il supporto cartaceo apre infinite possibilità, ecco, in un momento come questo, il tipo di ragionamento che capita sempre più spesso di sentire è proprio quello che auspica un ritorno copioso di soldi pubblici anziché, per esempio, sognare un venture capital maturo (la provincia di Boston da sola ha più fondi di tutta l’Italia) che al settore farebbe molto bene. Intendiamoci, non che il tema dei finanziamenti non sia chiave. Ma questo non significa neanche che senza quelli pubblici, il problema dell’informazione diventi insolubile. Come dimostra anche Linkiesta che non prende manco un euro dalle casse pubbliche in nessuna forma. E poi, come ripeteva il matematico Moritz Schlick, «non esistono problemi insolubili ma solo problemi mal posti».
Ecco, appunto, la speranza di un ritorno in pompa magna dei soldi pubblici è mal posta. Non tanto perché contare su una vittoria del Pd potrebbe rilevarsi un calcolo errato o perché, se vince, non riaprirà i cordoni della borsa, tutti elementi su cui si possono fare solo illazioni. Né perché i nostri 2mila miliardi di debito non lo permettano. È mal posta per almeno tre ragioni, come dire, ancora più pratiche.
- La prima è che il finanziamento pubblico all’editoria in un paese in cui a leggere giornali sono prevalentemente le classi più agiate dovrebbe già di per sé far riflettere sul suo senso, soprattutto a sinistra. In pratica funziona come funzionano in Inghilterra i proventi della Lotteria che vengono usati per i teatri d’opera. Chi scrive è un melomame ma non è facile trovarsi a proprio agio davanti all’idea che proprio i soldi dei meno abbienti (i consumatori della Lotteria) vengano usati per finanziarie i sepur nobili interessi delle classi più agiate (quale è l’opera lirica nel Regno Unito).
- Inoltre, se dopo tanti anni di finanziamenti pubblici siamo nella situazione che, per restare al paragone con Oltremanica, ai suoi picchi il solo Sun, il tabloid, vendeva quasi 5 milioni di copie, come tutta la stampa italiana messa assieme (in un Paese come l’Inghilterra che ha un numero di abitanti equivalenti al nostro) forse una parte della ragione è anche legata ai prodotti che sono stati finanziati con quei soldi e al modo in cui sono stati allocati.
- Nel nostro Paese “pubblico” significa “partitico” e “partitico” significa quei Moloch autorappresentanti incapaci di riformarsi, ma solo di occupare spazio mettendo il merito infondo alla classifica dei requisti essenziali, che sono i nostri tristi partiti politici. Non solo. Ma pubblico nell’informazione ha senso solo se si attua anche la distizione sottostante. Vale a dire l’orgogliosa appartenenza del civil servant inglese allo Stato e non al Governo, quella ritratta con grande ironia da una famosa serie Tv della Bbc (“Yes, minister” e la sua continuazione “Yes, prime minister”). È questa che fa la differenza. E basta vedere la conduzione di Jeremy Paxman del principale talk show politico sulla Bbc (Newsnight) per rendersene conto. Come quando di recente ha fatto notare a una giovane ministro che era incompetente (il video è qui sotto). O come quando pose 14 volte la stessa domanda a un politico (l’ora ex segretario agli Interni Michael Howard) che cercava di svicolare. Poi, certo, il giornalismo inglese gode di 400 anni di democrazia parlamentare e non ha iniziato il secolo scorso con un direttore di giornale diventato dittatore per finirlo con un editore diventato primo ministro, come invece è accaduto a noi. Ma è solo per dire che in Italia non abbiamo il giusto rapporto di distanza col potere perché i soldi pubblici producano qualcosa di credibile. Basta guardare quell’ectoplasma della Rai. (Se poi succedono storie come quella di Murdoch, il sistema reagisce ed è stato un giornale concorrente, il Guardian, a rivelarla).
Tuttavia non vogliamo qui entrare nel nodo della televisione pubblica, ma semmai restare in quello del resto del mercato dell’informazione. Per questo, posto questo quadro, vale la pena rimettere mano alla corposa ricerca dell’Università di Oxford che assieme alla Reuters hanno pubblicato una bella analisi sul tema dei fondi pubblici all’editoria nell’agosto 2011.
Se guardiamo all’ammontare complessivo, l’Italia spende (o meglio spendeva visti i provvedimenti del maggio scorso che hanno ridisegnato i criteri del finanziamento) 2,581 miliardi in aiuti pubblici all’editoria. La Francia ne spende 4,2, la Germania 7,7 e il Regno Unito 4,9. Quindi, viene da dire, dov’è il problema visto che già spendevamo meno già prima dell’intervento di Monti? Una prima risposta la raggiugiamo se si scorporano i soldi investiti nella Tv pubblica. Tolti questi, il risultato cambia di molto: l’Italia con 905 milioni diventa seconda per contributi dopo la Francia (1,239 mld) e prima di Regno Unito (748 mln) e Germania (525). Morale, spendiamo di più per la carta stampata, mentre non davamo una lira al web (la Francia finanzia pure quello con 0,5 milioni nel 2008 portati a 20 milioni nel 2009, da noi, nel decreto di maggio, si parla di «un sostegno biennale per la diffusione solo online»).
Proprio il fatto che lo Stato francese spenda più di noi per il sostegno all’editoria, non fa proprio ben pensare. L’arroganza del potere statale francese è nota, le storie di giornalisti cacciati o minacciati Oltralpe le abbiamo raccontate anche noi. Un bel libro di Serge Halimi di più di dieci anni fa (“Les nouveaux chiens de garde”) parla di un sistema altamente corrotto o collusivo, dove in molti passaggi basta cambiare il nome (per esempio Bruno Vespa al posto di Patrick Poivre d’Arvor) per vedere le tristi somiglianze di un potere del presunto cane da guardia che diventa docile e addomesticato come un agnellino. E a fronte di tutti questi soldi, risulta sempre dalla ricerca di Oxford, Francia e Italia sono i paesi europei con la minore penetrazione dei giornali. Sarà un caso?
Ecco, ma allora quale potrebbe essere la soluzione dato che è vero che produrre giornali non è equivalente a produrre lattine nel senso che il bene giornale non riguarda solo il consumatore ma anche il cittadino? Gli stessi autori del rapporto di Oxford nelle conclusioni invitano a riformulare un aiuto pubblico che non produce qualità ma controllo e che non rispecchia più la molteplicità di possibilità offerte ora dal mercato dell’informazione.
Una possibilità potrebbe essere quella di offrire detrazioni fiscali a chi decide di investire in un giornale. Così i cittadini potrebbero decidere di dare i soldi al loro giornale di riferimento, invece che allo Stato-partito che poi decide lui, in maniera arbitraria, non trasparente e non meritocratica, cosa farne. Avrebbero così un forte incentivo a farlo e quindi anche a responsabilizzarsi. I nomi dei donatori pubblicati in chiaro (come abbiamo fatto noi a Linkiesta) sarebbero un’ulteriore passo verso la trasparenza e in questo senso il governo potrebbe fare un altro passo avanti imponendo ai giornali di pubblicare anche lo spaccato preciso di quanti soldi ricevono da ogni azienda in pubblicità (Riccardo Puglisi ha pubblicato su Lavoce.info una ricerca che mostra che i quotidiani pubblicano più articoli sulle società quotate che fanno più pubblicità sulla loro testata). I soldi dei cittadini defiscalizzati potrebbero quindi funzionare come endowment, vale a dire essere versati a fondazioni che controllano poi la testata. In quel modo, la testata risponderebbe solo alla Fondazione di riferimento e i soldi non andrebbero solo o prevalentemente ai media tradizionali (una delle principali critiche messe in evidenza dalla ricerca di Oxford) ma anche a quelli più innovativi.
Oppure un altro modo di rimodulare il contributo pubblico potrebbe essere la via intrapresa dal Parlamento olandese che nel 2009 ha messo a disposizione 4 milioni di euro per 60 borse di studio da 67mila euro l’una. Così i soldi vanno ai giornalisti e non alle testate, le quali possono impiegare quei giornalisti come vogliono. Ma stiamo parlando di 4 milioni, non di 905. In questi modi il totale verrebbe a diminuire, il metodo sarebbe più meritocratico e trasparente, l’innovazione verrebbe premiata e non punita e si troverebbe un equilibrio fra mercato e cittadino, preservando la qualità e l’affidabilità dell’informazione.
D’altra parte, se a fronte dei contributi pubblici ricevuti finora la credibilità dei giornalisti in Italia è sempre in basso alle classifiche regolarmente superati da magistrati, sacerdoti, carabinieri e quant’altro, è perché forse i contributi pubblici hanno creato giornali fatti per i giornalisti e non per i cittadini, che infatti li lasciano molto volentieri in edicola. Perché, se davvero la nuova moneta del giornalismo social è l’autenticità, più che l’autorevolezza e quindi la credibilità, noi siamo ancora un passo indietro, visto che, queste ultime, sono proprio quelle qualità che tutti i nostri soldi pubblici non sono mai riusciti a dare al panorama informativo del nostro Paese.
Twitter: @jacopobarigazzi