Un libro. Una rivelazione nascosta fra le pagine. Una polemica, censurata alla bene e meglio, che ha come protagonista l’Arma dei Carabinieri. Si può riassumere così – in tre sintetici passaggi – quello che è successo dopo l’uscita de La Mala Vita, pubblicato la settimana scorsa da Sperling&Kupfer, che racconta la storia di Nino Maressa, carabiniere del ROS che per dieci anni, da calabrese, ha lottato contro la ‘ndrangheta.
Chi scrive è parte in causa della questione in quanto coautrice del volume. Le polemiche che hanno travolto il libro negli scorsi giorni – e che lunedì pomeriggio sono state oscurate dal sito internet che le ospitava, Loschermo.it – hanno infatti come obiettivo il Maresciallo Maressa. O, forse, dietro di lui, alcune scomode verità che devono rimanere taciute. Ma, cominciamo dall’inizio.
In Calabria, c’è un piccolo paese che si chiama Africo Nuovo. Si affaccia sul Mar Ionio, eppure i suoi abitanti non sono popolo di mare. Sono uomini di montagna prestati alla riviera. Uomini che, dopo l’alluvione dell’ottobre del 1951, hanno lasciato il paese in Aspromonte per ricostruire il loro borgo casa dopo casa, baracca dopo baracca, sulla Costa dei Gelsomini. Nell’immaginario comune Africo ha una dimensione prettamente mafiosa. Negli anni Settanta e Ottanta balzò alle cronache italiane – benché spesso tutto quello che riguardava questa zona della Calabria venisse genericamente liquidato nei giornali con la fatidica espressione Locride, come a dire che a nessuno poteva interessare ciò che accedeva in un luogo così remoto e inospitale del Belpaese – insieme ad altri piccoli centri abitati della zona. Balzò alle cronache giudiziarie insieme a San Luca, Platì e Ciminà per quei violenti, spietati, abominevoli sequestri che scandalizzavano l’Italia a suon di orecchie tagliate e falangi mozzate, e intanto riempivano le tasche e accrescevano il potere di quei pastori poverissimi che, ribattezzati come Anonima Sequestri Calabrese, d’improvviso si riscoprivano Famiglie d’Onore.
Africo è anche il paese di Don Stilo, prete amatissimo che, si dice, da quelle parti non negasse un diploma a nessuno. La mitologia che lo riguarda – e racconta che venne seppellito in una bara di cristallo, sollevata come fosse quella di un re per tutto il Paese, con decine e decine di donne che ne piansero per settimane la morte – è infinita. Ma niente in confronto a quello che ancora oggi molti, a oltre sette anni dall’arresto, continuano a considerare come l’Innominabile. La primula rossa della ‘ndrangheta. Il boss dei boss. Ovvero, Giuseppe Morabito. ‘U Tiraddrittu. La carriera criminale di Morabito, vera o presunta, è talmente lunga che non basterebbe un tomo di mille pagine per ricostruirla in tutti i suoi passaggi. Si annoda a momenti cruciali tanto per il suo piccolo paese, Africo, quanto per un altro Paese: l’Italia.
Tutto inizia nel 1952 quando, qualche mese dopo l’alluvione di Africo, Morabito viene denunciato per occupazione arbitraria di baracche, danneggiamento, porto abusivo di coltello e pistole. All’epoca, aveva appena diciotto anni.
Tre anni dopo, a ventuno, finisce in carcere: picchia un rivale e viene accusato di lesioni. Nel 1965 ha la prima denuncia a opera dei Carabinieri per “intimidazione mafiosa” e poi, nel 1967, viene denunciato per la seconda volta. Questa volta l’accusa è grave. Gravissima. Concorso nella strage di Piazza del Mercato a Locri.
È il 23 giugno 1967 e, uccisi alla maniera di Al Capone, muoiono i boss Domenico Cordì e Vincenzo Saracini, ma anche un innocente, Carmelo Siciliano, colpito per una tragica fatalità. Si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato. Morabito viene indicato come l’uomo che ha condotto sul posto i killer siciliani Tommaso Scaduto e Giuseppe Di Cristina. Quattro anni dopo viene processato, e assolto.
La sua fama però e decisa. Tutto quello che segue nella sua vita è un andirivieni dalla prigione. Sono condanne, denunce, assoluzioni, nuove condanne. Morabito, però, non ha pietà e non ha paura. Non si lascia spaventare dalle accuse di mafia, contrabbando, droga, estorsione. Non teme neppure che si dica che sia proprio lui a tenere in pugno il Municipio di Africo. Forse perché le voci raccontano che tenga sotto scacco anche l’Università di Messina, con un giro infinito di lauree regalate e comprate. Raccontano che i narcos venezuelani e colombiani abbiano l’ordine di trattare solo con lui. Raccontano che il suo impero affondi le radici anche, soprattutto, nella sanità e nel cemento. E poi, ci sono gli appalti pubblici. E poi c’è Totò Riina che la leggenda vuole si fosse fermato, dopo un viaggio a Reggio Calabria, a trovare l’amico Don Peppe travestito da prete.
Aneddoto criminale dopo aneddoto criminale, provvedimento penale dopo provvedimento penale, Morabito nel 1992 fa perdere le sue tracce. È ricercato per associazione per delinquere di stampo mafioso quando scompare dopo essere sfuggito alla retata Aspromonte del sostituto procuratore Roberto Pennisi che mette in ginocchio l’Anonima Sequestri calabrese. Morabito però si salva. Fa perdere le sue tracce come un lupo. Si nasconde nel suo Aspromonte. In quell’Aspromonte in cui è cresciuto, e in cui ha imparato a essere uomo d’Onore. Si nasconde fra i suoi monti da cui riemergerà, dodici anni dopo – dopo un’infinità di colpi di scena – con le manette ai polsi.
Adesso però fermiamoci. Facciamo un passo indietro rispetto al momento della cattura. Andiamo al 5 ottobre del 1996. È notte. Non si vede niente per le strade buie dell’Aspromonte. Sta piovendo. Una Fiat Tipo sgomma per le strade di Africo. Dentro c’è un uomo ammanettato. Non ha neppure quarant’anni. Si chiama Domenico. Accanto a lui, ammanettato a lui, c’è il Capitano Mannucci e un altro carabiniere. Alla guida un loro giovane collega sempre della compagnia di Bianco.
Dietro, una macchina sta sparando. Degli uomini armati di mitraglietta esplodono i loro colpi in aria. Sono gli amici di Domenico. Stanno cercando di spaventare il Capitano Mannucci e i suoi uomini. Sperano di riuscire a far fuggire il loro amico. In fondo, non è la prima volta che ad Africo si fa di tutto, ma proprio di tutto, per cercare di liberare un latitante appena catturato.
I carabinieri accelerano. Scappano via. Sanno che hanno in pugno un boss. E allora non c’è paura che tenga. Non c’è timore che non si può controllare.
Superano un’automobile ai bordi della strada. Non si rendono conto che quella macchina ha loro intimato l’alt. Non si rendono conto, forse, che si tratta di una pattuglia di Bovalino dei Naps, il Nucleo Anticrimine della Polizia di Stato.
La Tipo sfreccia. I Naps sentono degli spari. Pensano che si tratti di mafiosi in fuga. Sparano a loro volta. Cinque colpi, uno di seguito all’altro.
Questo, almeno, stando alla ricostruzione ufficiale. Voci insistenti di paese, e non solo, dicono che non sia andata proprio così. Dicono che, forse, i carabinieri per evitare a Domenico la fuga abbiano deciso di impedirgliela in qualche modo. Ma sono voci e, come questo, affatto attendibili. Si sa.
Fatto sta che i NAPS non colpiscono l’auto degli amici di Domenico. Colpiscono la Tipo. Feriscono di striscio un carabiniere, Angelo Mero, e alla testa Domenico, che muore sul colpo.
Il giorno dopo l’allora questore di Reggio Calabria Frano Malvano e il Colonnello Gennaro Miglio precisano che si è trattato di “una tragica fatalità”. Una fatalità però che scotta e che verrà affrontata il 7 ottobre con un vertice blindatissimo in prefettura alla presenza dell’allora Ministro degli Interni, Giorgio Napolitano. In ogni caso, la faccenda finisce nel dimenticatoio. Non si arriva in tribunale. Nessuno ad Africo, anche se le sanguinose logiche della ‘ndrina lo imporrebbero, vendica Domenico. Eppure, Domenico di cognome fa Morabito. Domenico è il figlio di Don Peppe.
Ora, però, facciamo un passo avanti. Di questa telefonata di cui stiamo per raccontare, fino adesso, nessuno ha mai parlato. Che sia perché è stata tenuta nascosta, che sia perché è finita nelle carte di un’indagine labirinto non importa. Fatto sta che, fino a oggi, in questi lunghissimi otto anni tutti hanno taciuto.
Arriviamo allora al 19 febbraio 2004. Ore 17:11. Morabito è stato arrestato il giorno prima a Santa Venere, una trentina di chilometri da Reggio Calabria. Al telefono c’è la figlia di Morabito, Francesca. Sta parlando con una donna che si chiama Elena. Elena ha chiamato Francesca per fargli le sue condoglianze perché, in Calabria, quando un latitante viene preso si impara a considerarlo un po’ come morto. Si sa che, se ad aspettarlo c’è il fine pena mai in 41 bis, più che in carcere è come se finisse in una bara. La conversazione fra le due è animata, a tratti disperata.
Poi, Francesca Morabito sbotta. A sorpresa, non parla del padre. Parla del fratello. Parla di Domenico e con tono volutamente ironico dice: “Mio fratello non è che lo hanno ammazzato loro, no, perché hanno avuto l’ordine di quelli infami con la divisa e di quelli senza della divisa di tutta la Jonica, perché loro sono stati la mano e la mente sono stati gli infami, quelli che gli hanno calato le corna, che mangiano e spartono tutti insieme… e che registrino questi figli di troia, che voglio che registrino” grida, rivolgendosi ai carabinieri in ascolto.
“E voglio che mi chiamano, voglio che mi chiamano perché lui si crede che è finita in questo modo, non è finita Elena, qua non è finita in questo modo, perché loro si credono, loro, con le loro menzogne non vanno avanti, perché la verità deve uscire fuori” aggiunge. Le parole sono ancora rivolte alla morte del fratello Domenico. Una morte mai veramente chiarita, se non nella lucida ricostruzione istituzionale che cozza non poco con le voci di paese. Con le voci di chi, racconta o semplicemente favoleggia, quella sera ha visto. Quella sera ha sentito.
Francesca si prepara a dire quello che probabilmente dà una nuova luce, dà una spiegazione a una mancata risposta di otto anni prima. Alla morte del figlio di un boss che non è stata vendicata. Anzi. È passata ingiudicata. Perché nessuno è stato condannato. Eppure, le parole di Francesca Morabito dimostrano che no, la famiglia Morabito all’incidente non ci ha mai creduto. Anzi.
“Mio fratello si è suicidato, hai capito, non lo hanno ammazzato! …he dovevano fare i maiali, poi mio padre ci ha affidato quella “carticella” bianca, quella che ha detto quello del Sismi, non è che l’ho detto io, che si fottevano cento milioni al mese insieme al suo compagno di merende” commenta. La carticella bianca, senza eccessive interpretazioni, pare essere proprio un accordo. Un inquietante accordo fra Stato e Mafia. Un accordo che ha portato la pace in un paese che ha visto morire invendicato, al di fuori di ogni logica mafiosa, il figlio di quello che era il boss dell’Aspromonte. Un boss latitante da due anni, che all’epoca era all’apice del potere.
Le interpretazioni però sono molteplici. È lo sfogo di una donna scioccata per la cattura del padre, o la lucida, concitata, ricostruzione di chi ha veramente visto andare in fumo l’accordo siglato da un documento, da una carticella?
La domanda, ad oggi, resta senza risposta. Ma siamo arrivati alla fine. Ecco l’ultimo appuntamento con il tempo. È il 2011. Incontro Nino Maressa, uno dei membri di quella squadra dei Ros che, quel 17 febbraio 2004, insieme a uno squadrone dei Cacciatori ha messo le manette – dopo un estenuante caccia al latitante, più e più volte deviata – al boss dei boss. Lo hanno catturato – mentre aspettavano una telefonata dal Comando che, a quanto pare, non è mai arrivata – alle undici del mattino, con le luci del sole, quando lo sanno tutti che i blitz si fanno all’alba. Lo hanno trovato vestito perfettamente. Forse troppo bene per un semplice giorno di latitanza.
Maressa io lo incontro per la prima volta a Lucca, in uno studio con delle grandi finestre che si affaccia sulle mura di questa placida città di provincia. Mi racconta la sua storia. La storia della squadra di cui ha fatto parte. Gli incontri si moltiplicano. Quello che doveva essere un unico appuntamento si trasforma. Diventa un viaggio nella Locride. E poi un altro. Un altro ancora. Diventa, infine, un libro con allegata una nota del Procuratore Generale di Reggio Calabria, Salvatore di Landro. Diventa “La Mala Vita”.
Potrebbe finire qui. Il boss dei boss con le manette. Una rivelazione, fino ad oggi nascosta, raccontata fra le pagine di un libro. I dubbi di un uomo dello Stato, che crede nello Stato sopra ogni cosa, che a distanza di anni si guarda indietro e ricorda le avventure che ha vissuto in Aspromonte. Racconta le avventure di cui è stato coprotagonista, con la squadra di cui faceva parte, attraverso la sua particolare ottica soggettiva. Potrebbe finire qui, ma qui non finisce.
L’ultimo appuntamento con questa saga, infatti, lo firmano i Ros di Reggio Calabria. O, meglio, la firma un Ros che all’epoca era a capo della squadra che mise le manette a Morabito e che nel libro viene indicato – come tutti i membri del team – soltanto con il suo nome in codice: Folgore.
Dopo aver saputo dell’uscita del libro e averlo letto, Folgore ha commentato lungamente su un sito internet di Lucca, LoSchermo.it, che aveva pubblicato una fotogallery relativa alla prima presentazione del volume. Obietta, rispetto al testo, che l’ordine per andare a prendere Morabito, contrariamente a quanto secondo lui si suggerisce nel romanzo, era stato dato. Tace sulla telefonata di Francesca Morabito. Tace su Domenico, ammazzato un giorno di febbraio e poi dimenticato.
Arrivano dieci, venti, trenta, cinquanta commenti. Alcuni mettono in dubbio il ruolo di Maressa. Altri invocano la riservatezza che vige all’interno del Ros, che considerano violata. Altri ancora si incuriosiscono per il libro, che racconta dall’interno la lotta alla mafia; la lotta alla prima, più potente e violenta organizzazione criminale del nostro Paese.
Poi il sito, lunedì pomeriggio, oscura tutto senza dare spiegazioni. Lascia le foto della prima presentazione del libro e un articolo che racconta i punti salienti della vicenda, alternando i passaggi del volume al lungo commento di Folgore. Cancella i commenti degli altri Ros di Reggio Calabria che si attaccano fra di loro, si accusano di protagonismo, si scontrano rispetto a chi ha partecipato e chi no a quella o a questa operazione, in una lunga sequela di botta e risposta. Cancella, soprattutto, i commenti di chi si domanda, a gran voce, perché nessuno parli della telefonata della figlia di Morabito dopo la cattura del padre. Perché nessuno racconti, o almeno cerchi, la verità.