Cinquant’anni fa il Concilio Vaticano II, quando la Chiesa si rimise in gioco

Cinquant’anni fa il Concilio Vaticano II, quando la Chiesa si rimise in gioco

Tra il mezzo secolo dell’esordio dei Beatles e del primo film della saga di James Bond cade anche il cinquantenario del Concilio Ecumenico Vaticano II. E forse è l’evento più carico di significato anche perché allora suscitò l’interesse e la curiosità degli stessi miscredenti. In una atmosfera di aspettativa e di malcelata meraviglia: in fondo l’istituzione terrena più antica, quella Chiesa cattolica dalla storia quasi bimillenaria, si rimetteva in gioco e rifletteva su stessa e sul suo ruolo nel mondo, mostrando insieme i suo potere e le sue profonde cicatrici. E la potenza delle immagini, nel pieno esprimersi della opportunità televisiva, ne faceva un evento comunque dallo spessore planetario.

E colpisce ancora, nel riproporsi in queste serate degli spezzoni d’epoca, il senso di fiduciosa attesa per quello che si veniva costruendo nella basilica di San Pietro trasformata in una ordinata aula conciliare dove oltre duemila vescovi dibattevano il futuro della Chiesa e del miliardo di credenti che ad essa facevano riferimento. Nelle immagini sgranate del vecchio bianco e nero televisivo riemerge uno stuolo di padri conciliari sorridenti, quasi ilari nella consapevolezza di venire disegnando una via positiva per l’uomo contemporaneo e di affaccendarsi in un cantiere spirituale che avrebbe sicuramente portato frutti universali di speranza e di fiducia, pur nella severità del compito e nella composta austerità delle forme.

Era la gioiosa aspettativa che tutto sarebbe cambiato in meglio. E questo sentire comune si scontrava, nelle stesse immagini di allora, con l’imponenza autoritaria e il fasto obeso dei rituali e dei paramenti: c’erano ancora la sedia gestatoria, il Triregno del Papa e lo strascico di sette metri della veste rossa dei cardinali, principi della Chiesa, i quattro corpi militari con le rutilanti uniformi. Ma si capiva che sarebbero stati presto confinati nella soffitta della Storia, secondo un processo di essenzialità che in realtà non si è ancora concluso.

Doveva essere, nelle intenzioni del promotore impegnato a cogliere i “segni dei tempi”, papa Giovanni XXIII, un Concilio rapido e asciutto, da esaurirsi in una sola tornata. Invece durerà quattro anni, intervallato dalla morte del “Papa buono” (che lascerà un immenso rimpianto popolare) e caricato sulle spalle del successore Paolo VI, che lo porterà a compimento superando, con la sua autorevolezza morale e intellettuale, laceranti conflitti interni e componendo senza fratture gli estremismi insieme innovatori e conservatori.

Ma il Concilio lascerà sul campo diverse illusioni e non pochi risentimenti, che, forse, soltanto adesso si stanno lentissimamente sciogliendo. Anche perché prenderanno piede due opposte interpretazioni: quella che lo legge come “rinnovamento nella continuità” della Chiesa e invece l’altra, più propagandata e diffusa, della “rottura e discontinuità” con il passato. Come se dalla assise ecumenica uscisse una comunità cristiana del tutto nuova e senza radici e per questo tesa esclusivamente ad abbracciare l’umanità contemporanea, a privilegiare la scelta dei poveri e ad impegnarsi per il cambiamento della società, non esclusa l’esplicita, se non prevalente, opzione sociale e politica.

E tuttavia, se non si vuole inseguire l’utopia di un presunto “spirito del Concilio” che misteriosamente soffia nel mondo (e che è frutto della libera interpretazione di chi lo avvalora), conviene riferirsi prosaicamente alle decisioni votate e approvate dai tremila padri conciliari. È un “corpus” imponente, con quattro costituzioni, (sulla liturgia, la chiesa, la parola di Dio, la chiesa nel mondo) 9 decreti e 3 dichiarazioni. Ne emerge un quadro profondamente rinnovato e semmai orientato alle origini della predicazione di Gesù e al mandato da lui ricevuto. Insieme all’apertura fiduciosa all’ecumenismo e al dialogo con le altre religioni c’è forte la nuova importanza del ruolo dei laici, la sensibilità di “essere nel mondo” e andare incontro all’uomo su tutta la Terra e a chiamare la Chiesa ad assumersi in prima persona l’intera condizione umana, facendo naturalmente proprie “le gioie e le speranze, i dolori e le angosce” degli uomini e dei popoli contemporanei, rivendicando altresì il dovere di metterli in comunicazione con il messaggio di Cristo.

A differenza di tutti i 20 Concili precedenti, però il Vaticano II non apporta nessun cambiamento e nessuna aggiunta ai dogmi della fede cristiana, stabiliti nel corso dei secoli: semmai li ribadisce come elemento fondante della condizione dei credenti. Piuttosto il Concilio interviene e decide in gran parte sulla materia “pastorale”, ovvero la natura della Chiesa cattolica al suo interno e il suo rapporto con il mondo.

E non è un caso che adesso, dopo le divisioni e le polemiche anche feroci degli ultimi decenni dentro e fuori la Chiesa, tocchi a Joseph Ratzinger “tirare le fila” del senso del Concilio. Al quale aveva partecipato ufficialmente, come teologo al seguito del cardinale Frings, arcivescovo di Colonia. Allora veniva annoverato tra i “progressisti” per poi essere considerato, da custode della fede a capo dell’ex Sant’Uffizio, il capofila dei conservatori.

Invece, soprattutto nei recenti anni del suo pontificato, Benedetto XVI sembra avere scelto con determinazione la via di applicare fedelmente e integralmente il dettato conciliare, anche nei confronti delle molte macchie che deturpano il volto e la vita della Chiesa, nell’intento di ripulirne la “sporcizia”. E a proposito, appunto della fedeltà al Concilio, pare ormai assodato che gli adepti dello scisma lefebvriano non potranno rientrare nella Chiesa di Roma: nonostante i recenti gesti di dialogo e di amicizia , si sono trovati di fronte alla condizione vincolante posta dal Papa di dover riconoscere solennemente e senza sconti come vero e autentico l’intero “corpus” delle decisioni conciliari.

Perché forse solo dopo mezzo secolo è possibile far emergere i frutti della “nuova Pentecoste” verificatasi allora, oltretutto in una attuale fase storica difficilissima per la missione della Chiesa. Benedetto XVI ha proclamato, proprio in legame stretto con la memoria del Concilio un “anno della fede” e ha convocato un importante Sinodo dei vescovi sulla “nuova evangelizzazione” con la dicitura che oggi “il cristiano non può essere tiepido”. E il Sinodo si è aperto lunedì con una disamina non compiacente sullo stato del mondo: il relatore iniziale, l’arcivescovo di Washington, Donald Wuerl ha parlato della secolarizzazione in atto soprattutto in Occidente come di un vero e proprio “tsunami” (“maris aestuantis impetus”, visto che parlava in latino) che ha sconvolto l’ordine naturale e gli indicatori sociali come il matrimonio, la famiglia, il concetto di bene comune e la distinzione tra bene e male.

Senza nascondere i mali interni alla Chiesa, (su cui il Papa ha spesso tuonato) le guide del mondo cattolico ammettono l’estrema difficoltà a comunicare la completezza del messaggio cristiano. E, nonostante la spinta propulsiva arrivata proprio dall’evento Concilio, sembra proprio che la Chiesa faccia fatica ad essere testimone nel tempo complicato di questo presente. Si citano qui, ma a titolo esemplificativo, due aspetti rilevanti: la morale sessuale con la relativa disciplina e l’impatto con la globalizzazione.

Lo scandalo della pedofilia, stroncato con decisione da Papa Ratzinger dopo anni di coperture, ha fatto emergere comunque il fossato che si manifesta tra i comportamenti generalizzati della società (anche dei credenti) e l’insegnamento della Chiesa. Al di là delle regole strette sulla comunione dei divorziati e della fermezza sul celibato dei preti, è l’intero impianto della dottrina che appare sempre più lontano dalla vita vissuta e dal clima sociale, dove si è ormai affermata una prevalente “cultura del desiderio individuale” che si viene trasformando anche giuridicamente in una logica dei “diritti” civilmente legalizzati. Ed è evidente l’incertezza e il dubbio della Chiesa sulla strada da intraprendere: anche se consiglia cautela l’esperienza delle terre di missione (dall’Africa al Sudamerica) dove la naturalità dei rapporti plurimi si rivela quasi sempre a detrimento delle figure più deboli, in particolare per quanto riguarda la dignità della donna.

Così pure si fa acuta la difficoltà a governare sul terreno spirituale l’impatto della globalizzazione, economica e culturale, che ha raggiunto dimensioni planetarie. In realtà la Chiesa appariva 50 anni fa una delle poche istituzioni già globale, perché “cattolica” e quindi universale. Era comunque l’unica ad avere una sua lingua “globale” e una sua liturgia (e quindi una comunicazione) anch’essa “globale”. Per inseguire l’effimera modernità si è buttato via tutto: con il risultato che quando è arrivata la globalizzazione la Chiesa si è trovata spiazzata. E soffre tutt’ora dell’incapacità di comunicare (anche solo al miliardo di cattolici) un messaggio univoco e un linguaggio chiaro e inequivocabile, quasi che fosse ormai una Babele contemporanea. Forse si arriverà a sentir messa nell’inglese sincopato dell’informatica: ma anche questo è un aspetto dove si è andati “oltre il Concilio”. Infatti, a ben vedere, la Costituzione sulla sacra liturgia (“Sacrosantum Concilium”) recita che sul rito il canto proprio della Chiesa è solo il gregoriano e la lingua della Chiesa è la lingua latina, che sia “conservata nei riti”, fatta salva la facoltà dei vescovi territoriali di estendere eventualmente l’uso della lingua volgare…

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