Fatturati in crescita e no licenziamenti, le cooperative sono un modello

Fatturati in crescita e no licenziamenti, le cooperative sono un modello

La funzione stabilizzatrice e anticiclica delle cooperative è stata più volte sottolineata con riferimento sia a specifici mercati, come quello finanziario che, più in generale, all’economia nel suo complesso. Questa funzione sembra emergere con particolare nitidezza nella crisi in corso. La Banca d’Italia nelle sue ultime Relazioni ha mostrato come le banche di credito cooperativo, a differenza della altre istituzioni finanziarie, abbiano mantenuto tassi di crescita positivi degli impieghi per tutti gli anni compresi tra il 2008 e il 2011, a vantaggio sopratutto delle imprese di minori dimensioni che sono il loro bacino di riferimento.

Secondo il recente “Primo rapporto sulla Cooperazione in Italia” predisposto dal Censis per conto dell’Alleanza Cooperative Italiana, tra il 2007 e il 2011 l’occupazione nelle circa 80.000 cooperative operanti in Italia è aumentata dell’8% contro una riduzione del 2,3% nell’insieme delle imprese e dell’1,2% nell’economia nel suo complesso. La propensione delle cooperative a tutelare l’occupazione e se possibile ad aumentarla anche nei periodi di crisi, evitando non solo di licenziare ma anche di ricorrere agli ammortizzatori sociali, è inoltre confermata da una ampio numero di casi documentati a livello nazionale e internazionale. Mancano tuttavia ancora analisi più complete sia nel numero di settori coinvolti che per le variabili utilizzate, analisi possibili solo utilizzando direttamente i bilanci delle singole imprese.

A questo fine è stato estrapolato dalla banca dati Aida-Bureau Van Dijk l’universo delle imprese sia cooperative che per azioni con un valore aggiunto almeno pari a 500mila euro, operanti in due provincie ad elevata presenza di imprese cooperative – Trento e di Bologna – attive in tutti gli anni compresi tra il 2006 e il 2010 e che hanno quindi depositato i bilanci presso la Camera di Commercio per tutti gli anni considerati. Dall’analisi sono state escluse le banche e le assicurazioni.

L’insieme delle imprese così selezionate è composto da 222 cooperative e da 191 società per azioni per la provincia di Trento e da 248 cooperative e da 513 società per azioni per la provincia di Bologna. Di esse si sono ricostruiti e confrontati i tassi di crescita delle due variabili più significative: il valore aggiunto e i redditi da lavoro dipendente.

L’analisi nel suo complesso conferma, in modo inequivocabile e superiore alle aspettative, la maggior resilienza delle cooperative rispetto alle società per azioni. In entrambe le province le cooperative hanno infatti mantenuto in tutti gli anni tassi di crescita positivi sia della ricchezza prodotta che del reddito da lavoro, mentre le spa hanno risentito maggiormente della crisi economica. Infatti, nella fase più acuta della crisi, cioè nel 2009, le cooperative hanno accresciuto il valore aggiunto del 4,48% in provincia di Trento e dell’1,50% in provincia di Bologna (Tabb. 1 e 2); diversamente le spa hanno contratto il valore aggiunto rispettivamente del 9,12% e del 14,77 per cento. Durante l’intero periodo sotto osservazione, la differenza nei tassi di crescita del valore aggiunto di cooperative e spa è stata in ambedue le province estremamente rilevante: 31,45% per le cooperative contro 12,16% per le spa in provincia di Trento e 23,78% per le cooperative contro -1,77% per le spa in provincia di Bologna.

Anche l’analisi dell’andamento dei redditi da lavoro dipendente mostra valori in crescita nelle cooperative costantemente e nettamente superiori a quelli delle spa. Solamente nell’intervallo 2006 – 2007 in provincia di Trento si è verificato un incremento dei redditi da lavoro dipendente nelle cooperative inferiore a quello registrato dalle spa (Tab. 1). Il tasso di crescita per l’intero periodo 2006-2010 dei redditi da lavoro dipendente è stato del 32,43% nelle cooperative e dell’11,87% nelle spa in Trentino e del 26,51% nelle cooperative e del 7,78% nelle spa nella provincia di Bologna (Tabb. 1 e 2). Anche se non è dato sapere se la maggior crescita registrata dalle cooperative sia dovuta ad un aumento del numero di occupati, ad un minor ricorso alla cassa integrazione o ad una aumento dei redditi da lavoro degli occupati già in forza, le differenze con le spa appaiono di tutto rilievo.

Approfondendo l’analisi per un settore di attività più omogeneo dove è particolarmente rilevante la presenza cooperativa, come il terziario al netto del commercio si confermano ulteriormente i risultati ottenuti per l’universo (Tab. 3). In questo caso, il campione si compone di 81 cooperative e 55 spa nella provincia di Trento e di 158 cooperative e 145 spa nella provincia di Bologna. I tassi di crescita del valore aggiunto delle cooperative in Trentino e nella provincia di Bologna sono stati anche in questo caso nettamente superiori a quelli delle spa, rispettivamente con un 36,37% vs. un 10,97% e un 25,21% vs. un 11,95 per cento. La medesima tendenza si registra per i redditi da lavoro dipendente.

Infine, seppur l’attività manifatturiera non sia un settore ad elevata presenza cooperativa (5 cooperative vs. 69 spa nella provincia di Trento e 11 cooperative vs. 199 spa nella provincia di Bologna) e quindi i risultati non siano particolarmente significativi, anche in questo settore le cooperative mostrano tassi di crescita sia del valore aggiunto che dei redditi da lavoro superiori a quelli delle spa (Tab. 3).

Anche se limitata a due sole provincie e nonostante il confronto non includa le imprese di minor dimensione e le imprese con forme giuridiche diverse da quella cooperativa e per azioni, l’analisi conferma pienamente la maggior resilienza della imprese cooperative. Le diversità nei tassi di crescita sono inoltre così marcate da consigliare un impegno maggiore nella ricerca delle ragioni.

Della maggior stabilità delle cooperative nelle fasi di recessione sono state fino ad ora date sostanzialmente tre spiegazioni: la minor attenzione delle cooperative all’efficienza che ne giustificherebbe anche la più lenta reazione nell’aggiustare produzione e occupati al contrarsi della domanda; i maggiori benefici fiscali di cui godrebbero e che ne compenserebbero la minor efficienza nelle fasi normali e gli consentirebbero di resistere meglio nelle fasi di crisi; la finalità sociale e mutualistica che renderebbe più difficili riduzioni, anche temporanee, dell’occupazione (specie nel caso delle cooperative di lavoro dove i lavoratori sono in genere anche soci).

In realtà nessuna di queste interpretazioni risulta del tutto convincente e coerente con i risultati dell’analisi. La ragione del diverso modo di reagire alla crisi da parte delle due forme di impresa va piuttosto ricercata nella diversità di obiettivi dei loro proprietari. Le cooperative nascono per garantire un servizio ai soci-proprietari e la loro ragion d’essere trova quindi fondamento nella soddisfazione di un determinato bisogno – di lavoro,di consumo, di credito, ecc. – della base sociale. Nelle società per azioni, specie se quotate, gli azionisti si aspettano invece soprattutto di ricevere un profitto, se non massimo almeno in linea o superiore a quello medio di mercato.

Poiché i bisogni sono spesso indipendenti dall’andamento ciclico dell’economia, e semmai aumentano nelle fasi di recessione, le cooperative tendono quasi naturalmente a mantenere inalterata o ad accrescere la produzione e quindi l’occupazione. Comprimendo se necessario i margini di profitto. Al contrario le società per azioni sono più sensibili alla ciclicità del sistema economico perché devono tutelare le risorse finanziarie impegnate dai soci più che i livelli di attività, in particolare agendo sui redditi da lavoro, riducendo il numero di occupati o scaricandone del tutto o in parte i costi sugli ammortizzatori sociali. 

La crisi contribuisce quindi a evidenziare che le motivazioni sottostanti all’attività imprenditoriale sono importanti e danno luogo a comportamenti che possono rilevarsi anche molto differenti. Nello specifico, le diversità delle forme proprietarie tra cooperative e società per azioni fanno sì che le prime tendano a mantenere inalterata finché possibile la propria offerta, mentre le seconde si concentrano maggiormente sulla bottom line del conto economico, ovvero sul residuo. A ciò va attribuita la diversa resilienza dimostrata dalle due forme di impresa e di ciò dovrebbero tenere maggiormente conto le autorità di politica economica nel definire le politiche per il rilancio della crescita.
 

*Carlo Borzaga insegna Politica economica all’Università di Trento ed è presidente di Euricse, Eddi Fontanari è dottorando all’Università dell’Insubria di Varese.

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