Il cassiere di Castelporziano: così si rubava al Quirinale

Il cassiere di Castelporziano: così si rubava al Quirinale

Un alto funzionario dello Stato che per decenni ha guidato il funzionamento della macchina del Quirinale. Consigliere fidato e riservato di Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi, circondato dall’aura del “sacerdote delle istituzioni”. L’immagine che ha sempre accompagnato l’attività dell’ex segretario generale della presidenza della Repubblica, Gaetano Gifuni, oggi appare offuscata da una complessa e oscura vicenda giudiziaria in corso nelle aule del Tribunale penale di Roma. Il grand commis è uno degli imputati nel processo relativo allo sperpero e all’appropriazione indebita di milioni di euro destinati dal Colle e dal dicastero dell’ambiente all’amministrazione della tenuta di Castelporziano, storica residenza estiva del supremo magistrato della Repubblica.

Abuso d’ufficio, peculato, truffa, falso materiale e ideologico sono i capi di imputazione a carico di Gifuni, di suo nipote acquisito già a capo del Servizio giardini del Quirinale Luigi Tripodi, dell’ex direttore della tenuta Alessandro De Michelis, dell’ex funzionario della Presidenza Giorgio Calzolari, e di uno dei due cassieri contabili di Castelporziano Paolo Di Pietro. L’altro cassiere, Gianni Gaetano, che ha già patteggiato cinque anni di reclusione di cui tre condonati grazie all’indulto del 2007, oggi ha ricostruito davanti ai giudici della settima Sezione penale i meccanismi e le trame di un presunto piano criminale perpetrato fra il 2002 e il 2008 e costato alle casse dell’Erario svariati milioni di euro.

Al pubblico ministero e agli avvocati difensori impegnati nel suo interrogatorio, Gaetano ha ricordato come le fonti più rilevanti di entrata della residenza estiva del Capo dello Stato fossero rappresentate da un contributo annuo proveniente dal Quirinale, da uno stanziamento del ministero dell’ambiente e dai ricavi derivanti dalla vendita di prodotti ortofrutticoli e della cacciagione presenti nell’area. Un bilancio, dunque, frutto della missione strettamente istituzionale e di attività spiccatamente privatistiche e commerciali: i cui introiti in entrambi i casi finivano su un conto corrente della Banca nazionale del lavoro situata nel palazzo del Capo dello Stato, e in una cassaforte presente nella tenuta per i contanti.

La disponibilità del patrimonio era nelle mani dei due contabili e dei loro diretti superiori gerarchici. Tutti, in base alle ipotesi dell’accusa, si sarebbero impadroniti di una parte consistente del denaro, per accedere al quale la procedura illustrata da Gaetano era tanto semplice quanto disarmante. Ai cassieri e al direttore, gli unici possessori delle chiavi del forziere oltre che i soli autorizzati a operare sul conto corrente, i responsabili della residenza presidenziale comunicavano di avere bisogno di fondi per necessità connesse al proprio ruolo. Alcune volte si trattava di poche centinaia di euro, in altri casi le cifre arrivavano a 15-20mila euro al mese. L’uso corretto del denaro era in teoria vincolato a una certificazione rigorosa delle spese o alla loro restituzione entro un tempo breve. Nella realtà invece le fatture erano vaghe e nebulose, e spesso il rimborso dovuto non arrivava.

Un vero e proprio peculato che, secondo la tesi della Procura capitolina, avrebbe raggiunto l’ammontare di oltre 4,5 milioni di euro nell’arco di sei anni nel solo caso di Tripodi. E che aveva provocato evidenti e notevoli ammanchi nei bilanci di Castelporziano. Solo mascherando le appropriazioni illegittime e truccando i libri contabili spediti al Servizio ragioneria del Quirinale, la frode ai danni della collettività ha potuto avere luogo così a lungo nel silenzio e nella complicità generale. Un clima favorito da un fattore significativo messo in risalto dallo stesso Gaetano: “Lavorando in un organo di rilievo costituzionale, le denunce per irregolarità o anomalie di varia natura non potevano essere inoltrate direttamente alla magistratura, bensì al superiore in ruolo. E in quel caso i superiori, in primo luogo Tripodi, che non mancava di ostentare il proprio potere agli occhi dei funzionari e degli operai, erano le persone implicate nello scandalo”. A parte Calzolari, “che accortosi della portata dell’appropriazione illegittima, era fermamente intenzionato a denunciare lo scandalo”.

Connivenza, avidità, negligenza, mentalità gerarchica, unite a norme che rendono complicata e laboriosa la conoscenza delle illegalità. E a una grave leggerezza, considerando che il cassiere avrebbe depositato in un armadio del suo ufficio nella tenuta due grosse borse con le ricevute degli assegni prelevati dagli imputati nel corso degli anni. Borse che Gaetano non tornò a recuperare neanche dopo essere andato in pensione e avere concluso ogni rapporto di lavoro con il Quirinale. Inutile dire che oggi di quei fondamentali documenti, “i bianco-segni”, foglietti di carta riempiti e firmati dall’ex contabile, non vi è traccia.

È solo verso la fine del 2008, quando alcuni fornitori della residenza presidenziale lamentano ripetuti ritardi nei pagamenti, che gli uffici di contabilità e ragioneria del Quirinale prendono coscienza delle anomalie presenti nei documenti trasmessi dagli amministratori della tenuta. Così, dopo avere ascoltato soprattutto Gaetano e Calzolari, promuovono un’accurata indagine interna in sintonia con la linea di rigore e trasparenza voluta da Giorgio Napolitano. E “con profondo rammarico” vengono a scoprire che buona parte del denaro destinato a Castelporziano è stato illecitamente sottratto. Se Gianni Gaetano, cui il pm ha sequestrato 3 milioni e 200mila euro, ha confessato di aver prelevato ogni anno dai 30 ai 45mila euro “per aiutare il figlio disoccupato e per pagare l’affitto di un centro ippico”, il coinvolgimento di Tripodi e di suo zio Gaetano Gifuni presenta una portata assai più ampia.

A giudizio dell’accusa, l’ex segretario generale del Quirinale, “su istigazione e in concorso” con il nipote, aveva deliberatamente ricostituito nel dicembre 1993 il Servizio tenute e giardini per designare proprio Tripodi alla sua guida. Quindi gli avrebbe assegnato illegittimamente “un alloggio di servizio” in una villa abusiva di oltre 180 metri quadri con giardino all’interno di Castelporziano. Una parte dei fondi frutto del peculato sarebbe stata impiegata proprio per la manutenzione della nuova residenza, mentre un altro milione di euro, la cui provenienza è ancora da dimostrare, sarebbe stata spesa dal nipote di Gifuni per comprare un’altra abitazione dopo essere andato in pensione. All’ascoltato consigliere di Scalfaro e Ciampi, che fino al 2011 era difeso dall’attuale Guardasigilli Paola Severino, la Procura capitolina imputa due specifiche fattispecie di peculato e di abuso d’ufficio.

Secondo il pm, Gifuni e Tripodi avrebbero utilizzato materiale di falegnameria acquistato dalla tenuta presidenziale per costruire due armadi, un tavolino e una tettoia parasole nell’appartamento privato del primo in Via Valadier, nel quartiere Prati a Roma. E avrebbero affidato a sei operai in servizio a Castelporziano la realizzazione di quei lavori di ristrutturazione.

Tesi che i legali dei due imputati respingono con decisione. Ora, completato l’esame dei testimoni, il processo è giunto al momento della verità. Lunedì e martedì sono previste la requisitoria dell’accusa e le arringhe dei difensori. Poi il collegio dei tre giudici si riunirà in camera di consiglio. E solo allora conosceremo una prima verità giudiziaria su una vicenda che ha gettato un’ombra pesante sull’autorevolezza di alcuni alti “servitori dello Stato”. 

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