È stata per decenni, a partire dal 1964, uno dei simboli dello sviluppo industriale del Lazio, un solido punto di riferimento per le prospettive di crescita economica di un territorio tradizionalmente agricolo come l’area pontina. Bastava pronunciare il nome della località che ospitava il suo stabilimento manifatturiero, Cisterna di Latina, e il pensiero correva a un marchio storico della produzione degli pneumatici: Goodyear. Tuttavia, dopo avere beneficiato a lungo di considerevoli agevolazioni fiscali e di finanziamenti nazionali e comunitari, la multinazionale statunitense della lavorazione della gomma ha deciso all’inizio del nuovo millennio di chiudere la fabbrica e abbandonare il proprio insediamento nell’Italia centromeridionale. Una scelta costata il posto di lavoro a oltre mille persone impegnate direttamente nell’azienda o attive nel mercato dell’indotto.
Ma i costi sociali provocati a partire del 2000 non si sono limitati al piano occupazionale. Perché sin dalla prima metà degli anni Novanta nella stessa area si è andata consumando una strage silenziosa: duecento morti per malattie tumorali hanno colpito gli operai attivi per un arco di tempo significativo negli impianti industriali. E da allora ha preso avvio una lunga, faticosa e dolorosa vicenda giudiziaria, che oggi è arrivata in uno dei suoi filoni al momento della verità. Il 13 gennaio i giudici della Corte d’Assise di Appello di Roma saranno chiamati a decidere se la responsabilità dei decessi deve essere attribuita al comportamento dei vertici dirigenziali della Goodyear, sotto processo per omicidio colposo plurimo e lesioni plurime aggravate ai danni di numerosi dipendenti scomparsi a causa di diverse neoplasie.
La ricostruzione della storia processuale e la spiegazione delle tesi accusatorie viene svolta in modo puntuale dall’avvocato Mario Battisti, che rappresenta le famiglie di alcuni lavoratori dello stabilimento, «vittime innocenti di un’amministrazione indifferente verso le più elementari iniziative a garanzia della loro salute e sicurezza». Tutto nasce, ricorda il legale, da un incontro nel 2000 con un sindacalista della fabbrica, Augusto Campagna, che aveva appena partecipato a un funerale di un collega scomparso per cancro. Nel corso della conversazione emerge un primo dato raggelante: le persone attive nello stabilimento decedute per la stessa patologia sono 40. Risalendo agli anni precedenti il conteggio arriva a 200 vittime. Consapevole che non possa trattarsi di fenomeni isolati, Battisti decide di prendere contatto con le loro famiglie, e riesce a raccogliere oltre 60 cartelle cliniche delle persone ricoverate per farle studiare dagli esperti dell’Istituto epidemiologico di Bologna, all’avanguardia nell’esame delle patologie di carattere professionale.
Forte dei riscontri medico-scientifici che evidenziano un legame profondo tra la prolungata presenza dei lavoratori nella fabbrica di Cisterna e l’insorgere delle malattie, l’avvocato promuove le doverose denunce all’autorità giudiziaria del capoluogo pontino ottenendo l’apertura di un primo procedimento penale. Accolto nello scetticismo generale e con un’iniziale diffidenza degli stessi magistrati dell’accusa, il processo acquisisce sempre più spessore e rilevanza, per la mole notevole di documenti analizzati e confrontati e per il rigore con cui tutti gli elementi disponibili passano al vaglio del Tribunale.
Nel 2003 viene chiesto e promosso un incidente probatorio durato nove mesi, grazie al quale prestigiosi oncologi dimostrano con perizie dettagliate che tra gli oltre 60 casi esaminati un numero significativo è legato alla natura dell’attività compiuta dagli operai Goodyear. Le patologie indicate nelle loro relazioni sono il tumore ai polmoni e alle vie respiratorie, allo stomaco e all’intestino, alla vescica. Malattie strettamente connesse, secondo le risultanze mediche sottolineate da Battisti, a una reiterata e intensiva esposizione ai prodotti chimici, coloranti, solventi utilizzati proprio dall’azienda degli pneumatici. Materiale altamente inquinante e tossico, che produce polveri, fumi neri e un elevato tasso di calore necessario per la combustione della gomma. Tutte sostanze ritenute dalla letteratura scientifica canali veicolanti di fattori cancerogeni, soprattutto in un luogo unico e privo di barriere divisorie come l’impianto di Cisterna.
Al contrario di quanto emerso nel processo Eternit, qui non è l’amianto la causa fondamentale dei decessi dei lavoratori: «Pur essendo presente nella copertura del capannone e all’interno di diversi macchinari aziendali, l’amianto in questo caso non rappresenta la materia prima lavorata, non è l’elemento più importante e diffuso nella struttura». A conforto di tale considerazione il legale cita un dato eloquente: i fenomeni di mesotelioma, la forma tumorale più direttamente legata alla vicinanza con le fibre del pericoloso minerale, sono stati individuati soltanto in due degli operai scomparsi.
Ma l’aspetto più clamoroso messo in risalto dal legale di parte civile è che «neanche il principale responsabile dello stabilimento conosceva esattamente il tipo di prodotto impiegato. Si trattava di un segreto industriale, come conferma il fatto che venivano immessi nell’ambiente di lavoro con nomi di fantasia». Un quadro paradossale che però costituisce la premessa logica della gravissima mancanza delle più essenziali misure di sicurezza a tutela della salute dei dipendenti, nella violazione delle norme igienico-sanitarie necessarie a proteggere la loro incolumità. «Le stesse cautele e prescrizioni indicate nei pacchi di materiale chimico provenienti dalla Germania e dal Regno Unito e destinati all’azienda venivano puntualmente ignorate, e i meccanismi di aspirazione e ripulitura dell’aria all’interno della fabbrica erano del tutto inadeguati».
Nel corso del dibattimento, che vede a giudizio nove persone fra presidenti del consiglio di amministrazione aziendale e direttori della fabbrica in differenti periodi, emerge come le strutture di un impianto che a metà degli anni Novanta era giunto a produrre 15mila pneumatici al giorno fossero identiche e inalterate rispetto a tre decenni prima, epoca della sua installazione. L’iter processuale di primo grado si articola in oltre 70 udienze, durante le quali tutti i consulenti delle parti in causa vengono ascoltati e interrogati scrupolosamente, ricorda Battisti. Al termine del procedimento, nel luglio del 2008, i nove dirigenti sono riconosciuti colpevoli per non avere messo a punto adeguati metodi di protezione della salute di 13 dipendenti sottoposti per almeno cinque anni a una prolungata e quotidiana esposizione ai fattori patogeni. Vengono condannati a pene che oscillano tra i sei mesi e gli oltre cinque anni di reclusione, per omicidio colposo plurimo e lesioni aggravate plurime.
Venuti a conoscenza dell’inchiesta e poi del processo penale, i familiari di altri lavoratori della Goodyear scomparsi per malattie tumorali presentano le proprie denunce: dalle quali scaturisce un secondo filone di indagini sfociato in un dibattimento di primo grado attualmente in corso nelle aule giudiziarie di Latina.
All’indomani della sentenza di condanna, la difesa di cinque dei nove dirigenti dell’azienda statunitense, Michael Murphy, Jeffrey Smith, Adalberto Muraglia, Pierdonato Palusci, Antonio Corsi, presenta ricorso in appello. Processo giunto ormai alle battute decisive. Mentre il sostituto procuratore generale e le parti civili chiedono la conferma del verdetto di primo grado, l’avvocato Maurizio Bellacosa, a nome di tutti gli imputati, si fa portatore di una tesi radicalmente alternativa e ne spiega le ragioni.
Primo obiettivo della sua strategia è sconfessare il nesso causale stabilito dai giudici del capoluogo pontino tra la gestione dello stabilimento da parte dei vertici imprenditoriali, le caratteristiche igienico-sanitarie dell’ambiente di lavoro, l’insorgere delle patologie nei dipendenti. Malattie che «presentano una molteplicità di possibili fattori, a cominciare dal ricorso frequente e intensivo al fumo, un’abitudine riscontrata in numerosi operai deceduti. E il consumo di sigarette costituisce la causa del 90 per cento delle neoplasie polmonari e del 25 per cento di quelle all’apparato digerente».
Patologie, queste ultime, che possono essere provocate anche da un ulteriore fattore: un’infezione al sistema intestinale denominata “helicobacter pylori”, connessa a sua volta a disturbi come l’ernia iatale e la gastrite cronica. «Tutti fenomeni registrati nelle schede medico-ospedaliere di una delle vittime». Tuttavia, rileva l’avvocato della difesa, l’attenzione a tale pluralità di cause è stata volutamente ignorata e trascurata dal collegio giudicante di primo grado sulla base di una deduzione logica assai discutibile. A suffragio delle proprie tesi, Bellacosa fa riferimento a un complesso di studi epidemiologici con esiti antitetici rispetto a quelli presentati dall’accusa. «Un lunghissimo esame scientifico svolto per quasi trent’anni, dal 1964 al 1993, dal dipartimento oncologico della Regione Lazio sul territorio di Latina (anche se non sull’area specifica dove ha sede l’impianto), e un’analisi dettagliata compiuta dai ricercatori dell’Università Cattolica su sollecitazione della stessa azienda, escludono la presenza di rischi attendibili per la salute e l’integrità dei dipendenti Goodyear e dell’intero comparto manifatturiero degli pneumatici. Un settore in cui vengono prodotte molecole denominate polimeri, di gran lunga meno tossiche rispetto ai monomeri, tradizionalmente emesse dalle fabbriche della gomma in generale». Semmai, prosegue il legale, i riscontri ottenuti e pubblicati dalla International agency for research on cancer evidenziano in tale ambiente il pericolo sia pur limitato di leucemie e linfomi, del tutto assenti nella vicenda dello stabilimento di Cisterna.
A questo punto l’avvocato difensore focalizza la sua attenzione sull’altro punto nevralgico del processo: l’esposizione prolungata degli operai ai fattori scatenanti delle malattie. I giudici di primo grado, osserva, non hanno tenuto nel dovuto conto la letteratura e i documenti scientifici internazionali della Iarc, per cui la pericolosità e il carattere altamente nocivo dei prodotti industriali derivano essenzialmente dalla “sinergia”, dall’interazione tra le diverse sostanze. Nel settore manifatturiero della gomma, i documenti dell’organismo mondiale impegnato nella ricerca sul cancro considerano molto dannosa la mescolanza tra fumi e amianto. «Ma l’amianto, come evidenziato anche dalle parti civili e dall’accusa, è assente dal processo in corso. E, a differenza di quanto emerso nella lunga vicenda dello stabilimento petrolchimico di Porto Marghera, in questo caso il materiale tossico respirato e trattato dai lavoratori non viene mai specificato. Il verdetto di primo grado parla solo di elementi chimici cancerogeni in uso nell’ambiente polveroso della fabbrica. Tuttavia, come accertato dalle consulenze scientifiche presentate dalla difesa, i prodotti presenti nello stabilimento non potevano avere natura patogena e il livello massimo di polveri consentito dalle norme igienico-sanitarie non è mai stato oltrepassato».
Il giudice del capoluogo pontino, puntualizza Bellacosa, ha stabilito una «concausalità medica» che non può presentare una rilevanza penale: non è in grado di dimostrare l’esistenza di una condotta omissiva, negligente, irresponsabile, del datore di lavoro nel consentire una reiterata esposizione del dipendente a fattori altamente nocivi. Al punto di provocare l’insorgere del tumore. In altre parole, «per appurare al di là di ogni ragionevole dubbio il nesso di causa ed effetto tra comportamento dei dirigenti aziendali e formazione delle patologie negli operai era necessario ricondurne l’origine a fattori nettamente differenti dall’uso massiccio di sigarette».
Forte delle argomentazioni illustrate ai due giudici togati e ai sei giudici popolari, il legale dei vertici della Goodyear arriva alle richieste conclusive: assoluzione piena per tutti gli imputati e, in via subordinata, il riconoscimento degli elementi attenuanti in caso di condanna. L’udienza di gennaio vedrà le contro-repliche dell’accusa e delle parti civili: poi il collegio si riunirà in camera di consiglio per emettere la sentenza. Possibile spartiacque di una storia risalente all’ultimo decennio del Novecento, e che affonda le sue radici ancora più lontano. Nell’Italia fiduciosa e ottimista del boom economico, terra di investimenti spregiudicati da parte dei giganti industriali di tutto il mondo.