«Nella Lega chi decide è ancora Umberto Bossi?». Basta questa domanda, che si pone un barbaro sognante di ferro, per raccontare una delle giornate più lunghe e faticose dentro la Lega Nord 2.0 di Roberto Maroni. Doveva essere il D-day per Roberto Formigoni, il presidente di Regione Lombardia accerchiato dalla magistratura per le indagini sulla sanità e per l’arresto di un assessore per ‘Ndrangheta. Ma giovedì 11 ottobre sarà ricordato per uno dei giorni peggiori del nuovo Carroccio a trazione maroniana. O comunque del ritorno dello storico asse di ferro e del Nord tra Bossi e Silvio Berlusconi: sono stati loro due a dettare la linea per mantenere salde le giunte di Piemonte, Lombardia e Veneto.
In ogni caso, il fallimento dentro la Lega si consuma in meno di 24 ore. Da quando Matteo Salvini, segretario lombardo del Carroccio, minaccia nella serata di mercoledì le dimissioni di assessori e consiglieri padani, per poi digerire il giorno dopo la decisione del segretario federale di accettare l’azzeramento della giunta lombarda e il rimpasto con i tecnici.
«Non sono un irresponsabile», spiega Maroni in una conferenza stampa che molti leghisti definiscono «una farsa», dopo aver firmato il patto con Formigoni e il segretario del Pdl Angelino Alfano sulla sopravvivenza dell’amministrazione di centrodestra in Lombardia e (forse) su un accordo elettorale in vista delle politiche del 2013.
Il vecchio stile del Senatùr nel barattare questioni politiche con accordi di ogni tipo non pare essere tramontato. Soprattutto se alle regionali e alle politiche il centrodestra sarà formato ancora da Bobo e Alfano, con il primo (con tutta probabilità) candidato governatore in Lombardia.
La base leghista, comunque, non la prende bene. Oltre a quel Maroni seduto in conferenzaconuno sfondo Pdl – partito ormai in disarmo – sono tanti i commenti sui social network che rinfacciano a Salvini di aver sbagliato a non far cadere la giunta. C’è chi se la prende con Maroni. Chi sottolinea che tra il segretario federale e quello lombardo c’è stato qualche errore di comunicazione.
Non a caso, se durante la conferenza stampa Bobo, insieme con il Celeste e Angelino, aveva rinnegato l’idea del voto in aprile, poche ore dopo, durante una manifestazione in via Corridoni a Milano, il Pierino padano Salvini ha ribadito il concetto: «Probabile il voto anticipato in primavera, si decide sabato al consiglio federale in via Bellerio». Qualcuno confida ancora nella caduta della giunta, mentre a sinistra sostengono che Salvini dovrebbe dimettersi.
Nel Carroccio è comunque il tutto contro tutti. Facce scure. Arrabbiatisono i militanti milanesi, ma pure quelli del Veneto e del Piemonte, con a capo Luca Zaia e Roberto Cota, che per tutta la giornata di ieri hanno continuato a rinfacciare a Formigoni di non avere voce in capitolo sulle giunte leghiste. Caos e pruriti.
Maroni se l’è pure presa con l’autore di Gomorra Roberto Saviano per le accuse sulla vicinanza tra ‘Ndrangheta e Lega Nord: «Si sciacqui la bocca quando parla di noi», gli ha detto Bobo scatenando le solite critiche a destra come a sinistra. Alla fine, però, è la Lega a pagare il prezzo più pesante. Cioè quello delle incomprensioni, di una politica del tira e molla che forse – sostiene qualcuno in Bellerio – non si addice al nuovo segretario federale.
Qui sta il punto. Nel perfetto stile leghista, durante questi due giorni Salvini ha svolto quello che per anni ha fatto Maroni insieme con Bossi: uno faceva il poliziotto buono e un altro quello cattivo. Accadeva sulle questioni più importanti, dal voto alla Camera per l’arresto di Nicola Cosentino fino all’approvazione della legge Cirielli o comunque per provvedimenti che avrebbero inimicato la Lega ai loro militanti. Anche ieri i padani hanno dovuto digerire un rospo pesante, come ha fatto lo stesso Maroni, che in conferenza stampa ha ribadito il suo impegno nella lotta alla ‘Ndrangheta durante la permanenza al ministero degli Interni.
Non sembra bastare però. Tanto più che ieri Bossi è tornato a parlare. Il Senatùr si è fatto sentire alla Camera. «Fossi in Formigoni non mi dimetterei», ha spiegato. E paradossalmente la sua linea, quella di un ex segretario ormai all’angolo, è passata. Del resto, se Salvini ha chiesto fino all’ultimo il passo indietro di Formigoni, a Maroni è toccato spegnere il fuoco, in particolare durante l’incontro di primo pomeriggio nella sede del Popolo della Libertà in via dell’Umiltà a Roma.
Il Celeste, forte dell’incontro con Berlusconi — pure il Cavaliere gli avrebbe sconsigliato di mollare la Regione – ha minacciato fuoco e fulmini, mentre Alfano ha provato a rivendicare la sua leadership in tandem con l’amico Maroni. Poi dopo l’incontro tra i presidenti di Regione e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, Formigoni è ritornato a parlare con loro, trovando l’escamotage della giunta tecnica, ennesimo tentativo di tirare campare ancora qualche mese.
A quanto pare il Celeste continua a camminare sul filo del rasoio, tanto che molti leghisti sostengono che potrebbe cadere nei prossimi giorni. Oppure, cosa più probabile, come già riportato da Linkiesta mercoledì, l’ideale sarebbe una crisi pilotata tra dicembre e gannaio, magari dopo aver cambiato la legge elettorale con il listino bloccato, in modo da andare a votare in aprile. Del resto, proprio Maroni lo ha spiegato durante la conferenza stampa a Roma: «Se avessimo chiesto di votare in aprile non avremmo dovuto mollare adesso: ci vogliono 90 giorni dalle dimissioni per convocare le elezioni», ha chiosato l’ex titolare del Viminale. Aprile però è molto lontano. E le indagini sono appena all’inizio.