La Borsa dei maiali, quando la finanza entra nel porcile

La Borsa dei maiali, quando la finanza entra nel porcile

MODENA – Questa è la storia dei maiali della Borsa: ogni cosa si svolge a porte chiuse; ventitré uomini decidono tutto. In finanza le chiamano commodities. Bel nome inglese; pulito. Ma questa commodity grugnisce e grufola, e s’impantana di fronte al trogolo.

Se si fa anticamera davanti alla commissione, si sente gridare. Il computer ancora non si è imposto; si continua alla vecchia maniera. Gli animi si scaldano quando si discute della categoria principe per il mercato italiano: i suini grassi da macello da oltre 156 a 176 chili di peso; quelli che servono per fare i prosciutti Dop, come il Parma, il Modena e il San Daniele. Anche i porci hanno le loro gerarchie e questa classe di peso è, tra i maiali, l’aristocrazia.

Dentro ci si accapiglia per un millesimo di euro. Si rischia a lungo di non trovare l’accordo. Un millesimo è un misero millesimo, ma moltiplicato per tanti chili e per tanti porci, diventa un bel gruzzolo. Il capitalismo non vive solo a Wall Street. Sta di casa anche nel porcile.

Alla Borsa di Modena si riuniscono per fare il prezzo del maiale ogni lunedì. A Mantova c’è la Cun, la Commissione unica nazionale. Ma qui la guardano un po’ dall’alto in basso, perché «loro non sono una Borsa vera, e lì è possibile anche fare il non quotato, e andare a trattativa libera». In realtà, ormai, il Nord prende come riferimento i prezzi mantovani, mentre dall’Emilia alla Sicilia dominano i prezzi modenesi. Le Borse suine di Reggio Emilia e di Milano hanno progressivamente perso importanza.

Il lunedì è giorno di commissioni. Si inizia al mattino coi bovini vivi. Segue la carne bovina. Quindi i cereali. Poi i foraggi. È il momento dello zangolato (burro grezzo) e poi del parmigiano reggiano. In certi periodi dell’anno si fa il prezzo anche di uva, vino e pere Igp, sia fresche che da magazzino frigorifero.

Dopo la pausa pranzo, inizia il regno del porco. Commissione suinetti. Commissione suini grassi. Commissione grassi da suino (strutto et similia). Commissione carni suine. Commissione cosce fresche da prosciutto. Commissione salumi (non tutti i lunedì; la volatilità di questo mercato è inferiore). Sui salumi, la Borsa di Modena ha un’importanza centrale. Parma, infatti, quota solo il prosciutto. Qua, invece, si prendono le decisioni anche dei precotti, dello zampone, della mortadella, dello speck e dei salami…

Ma – come detto – le vere battaglie si combattono nella commissione maiali grassi da macello in categoria di peso da oltre 156 a 176 chili. Solo queste bestie hanno la giusta percentuale di grasso e muscoli che rende la coscia idonea al disciplinare dei prosciutti con denominazione di origine protetta. Gli oltre venti uomini che si fronteggiano rappresentano in numero pari le due categorie: gli allevatori e i macellatori. Chi vende e chi compra, insomma. (Così come, tra i suinetti, si contrappongono allevatori ad allevatori o, nelle cosce fresche, macellatori a trasformatori/insaccatori, e così via).

Un funzionario camerale presiede i lavori, garantendo la regolarità, facendo in modo che a tutti sia garantito il diritto di parola, e ristabilendo l’ordine quando i toni si alzano troppo. La commissione ha esattamente un’ora e un quarto per trovare il compromesso. Non un minuto di più. Se l’accordo non c’è, il prezzo verrà fatto, dopo aver acquisito le informazioni ritenute necessarie, da un organo super partes: la deputazione. Una triade (più un membro supplente) che resta in carica un anno e che, a cose normali – quando la trattativa va a buon fine – si limita a convalidare i prezzi.

Quanto ai membri delle commissioni, sono nominati dalla Camera di Commercio su proposta delle associazioni di categoria. Anche loro restano in carica un anno (e sono rinnovabili senza limiti) ma il loro mandato è a titolo gratuito. La Borsa non stabilisce un numero minimo o massimo di membri delle commissioni. Quella dei suini da macello – la più popolata – si è però ormai stabilizzata oltre quota venti.

Ognuno deve e vuole dire la sua (prevale il dialetto: modenese in testa, ma anche ferrarese e mantovano) e così la discussione è, a quanto racconta Manuela Guerra, funzionario dell’area Tutela del mercato alla Camera di Commercio di Modena, «sempre decisamente vivace, raramente tranquilla, qualche volta agitata».

Alla fine, una volta stabilito il prezzo – per accordo raggiunto o d’imperio dalla deputazione – la Borsa invia per fax, email ed sms a tutti gli operatori del settore il nuovo listino, con tanto di raffronti con le principali Borse porcine estere. Concessione estrema alle moderne tecnologie, visto che invece il progetto Meteora Spa, una rete telematica studiata per facilitare l’incontro tra la domanda e l’offerta dei prodotti agricoli, nel settore suinicolo non è decollato, e si fa ancora tutto alle grida.

Ogni lunedì viene anche stilata un’analisi che suonerà al contempo familiare ed estranea a chi ha l’orecchio allenato alle cronache dei saliscendi delle aziende quotate a Piazza Affari. Ecco quello di uno degli ultimi lunedì:

«Prezzi invariati per suini e scrofe da macello. Tra i suini d’allevamento confermato il segno positivo per i prezzi dei lattonzoli da 6 a 25 chilogrammi. Nel listino delle carni suine in evidenza l’aumento delle quotazioni dei prosciutti freschi per Dop e la consistente flessione di quelle di grasso e strutto. Nel settore del bestiame bovino scambi attivi per i vitelloni femmine da macello con prezzi in aumento mentre è calmo il mercato dei bovini maschi da ristallo che registrano prezzi prevalentemente in diminuzione. Andamento positivo di mercato per i tagli di vitellone femmina e manzo con quotazioni in rialzo. Prevalentemente stazionario il listino dei cereali e dei prodotti per l’industria mangimistica, ad eccezione del lieve aumento dei prezzi di cruscami e farine di grano tenero con caratteristiche di legge. Lieve aumento anche per le quotazioni di erba medica fienata e fieno di prati vallivi, fossi e carreggiate».

«Forse appariremo arcaici in quest’epoca di elettronica esasperata», spiega ancora la Guerra. «Ma il maiale bisogna vederlo. La figura del mediatore è ancora centrale. La sola informazione della classe di peso non dice tutto. Certi difetti non si possono evincere dalla documentazione. A volte può bastare una botta o una piccola malformazione alla coscia per renderlo non buono per fare il prosciutto. Così, qui in Borsa, nella fase preliminare della trattativa, ognuno espone quanto ha venduto e comprato, ed è in questo modo che si crea la base della negoziazione. Fino a qualche anno fa tutto accadeva addirittura direttamente al mercato del bestiame, alla presenza dei maiali».

Ma l’arretratezza non è solo tecnologica. «All’estero», racconta la Guerra, «sono molto organizzati. Qua da noi la mentalità è diversa e l’ago della bilancia pende verso chi è più forte (l’industria della macellazione) rispetto agli allevatori, che sono molto divisi e di dimensioni diversissime tra loro. Si va dal piccolo-piccolo a quello che riempie 17 autotreni. E il maiale sempre quello è, non è che il piccolo possa fare un maiale migliore. Questa frammentazione fa perdere forza contrattuale. Gli allevatori da noi sono strozzati: hanno molte grane per l’aumento esponenziale del prezzo dei mangimi. Da anni lavorano in perdita o con margini irrisori. Hanno una grossa crisi di liquidità. Chi può, smette. Ormai si è aperta anche una questione generazionale: l’età media è molto elevata. Nessun giovane vuole iniziare, vedendo che non ci sono speranze di business. Sono sparite tantissime porcilaie. La zona di Magreta e di Formigine, a sud della città, era chiamata Porcopoli. Adesso non c’è quasi più niente. Per la suinicoltura il momento è drammatico».

«In particolare sul suinetto si lavora in perdita: tra i giovani maiali la mortalità è alta, il costo delle vaccinazioni è elevato. E poi se fa caldo non mangiano e non crescono, e sono facili alla dissenteria. Li importiamo. Entrano molti capi dall’estero. Soprattutto da Danimarca e Olanda; grandi produttori di lattonzoli. Ma c’è un problema. Per i disciplinari dei salumi Dop, i maiali devono essere italiani al 100%; nati e cresciuti qua. La produzione di Dop non sta calando. La necessità di capi è la stessa. Ma di maiali italiani ce ne sono sempre meno… In verità, i numeri precisi non li sappiamo. Il quadro del settore è molto diverso rispetto al bovino, dove, dopo la Mucca pazza, il conto è preciso alla singola unità; c’è la classificazione CE; l’anagrafe bovina e bufalina (che ha sede a Teramo), e persino ogni singola carcassa viene marchiata. Nel maiale, invece, non ci sono dati ufficiali sugli abbattimenti. Ci si basa solo sulle autocertificazioni dei macellatori».

Fatto sta che – parola di Stefano Bellei, segretario generale della Camera di commercio di Modena – oggi i maiali prodotti nel modenese sono 300mila, meno della metà rispetto a venti anni fa. Lo conferma Roberto Antognarelli, componente della deputazione della Borsa e analista suinicolo. Antognarelli abbozza anche una possibile spiegazione: «In Italia si è consolidato un particolare sistema di commercializzazione. Da noi pressoché la totalità dell’interscambio avviene attraverso contratti annuali di fornitura che fissano i quantitativi e la tipologia di merce e definiscono un premio, un plus, che viene sommato al prezzo che di settimana in settimana è fatto dalle Borse di riferimento. Questo sistema, in quindici-vent’anni di applicazione, ha concorso a diminuire il potere contrattuale di chi vende, visto che da noi i venditori (allevatori) sono molto frazionati, mentre i compratori (macelli) sono in numero molto più ristretto. Gli allevatori hanno progressivamente perso la capacità di affrontare il mercato. Oggi c’è una ripresa del prezzo del maiale, ma il fortissimo aumento del costo dei mangimi tiene ugualmente bassi i margini».

«Il patrimonio scrofe (dette anche troie) in Italia è in costante calo», prosegue. «Per l’Istat siamo passati dalle 622.210 scrofe del 2006 alle 555.982 del 2011. Ancora meno nel 2012 (clicca qui per i dati Istat sulla popolazione suinicola), e la riduzione continuerà nel 2013. È un fenomeno che va a condizionare il valore dell’offerta. Dobbiamo fare un ragionamento sulla remuneratività della produzione del maiale in Italia. Partiamo dal suinetto di 25 chili, e vediamo quanto costa farlo ingrassare fino a 170 chili, tenendo conto di tutto (dai mangimi all’energia, dal lavoro ai vaccini, ai casi di mortalità, agli oneri finanziari, e con tutte le preoccupazioni e gli aumenti di costo legati alle nuove regole sul benessere animale volute dalla Ue). Risulta pagante? Copre almeno i costi? A monte c’è la gestione della scrofaia. Se in perdita, il prezzo dovrebbe essere aumentato. Purtroppo, da noi non c’è l’abitudine tra gli allevatori a fare previsioni. Ma la parte previsionale nel breve periodo è determinante. Non certo per poter dire di averci azzeccato o meno, ma per essere in grado di gestire gli scostamenti».

L’aumento del prezzo di soia e cereali rischia di vanificare i buoni risultati di mercato raggiunti dalla carne suina negli ultimi mesi. E Antognarelli non nasconde che solo se le produzioni dei circuiti di qualità – in primis Prosciutto di Parma e San Daniele – riusciranno a mantenere l’attuale trend positivo, non si lavorerà in perdita. «A novembre prossimo il costo sostenuto per ingrassare il maiale e portarlo a 170 chili sarà di 1,715 euro al chilo. Pensate che fino a giugno scorso era di 1,444. A dicembre prevediamo 1,712; a gennaio 1,681. Non torneremo sotto quota 1,60 prima di giugno 2013», dice.

Grazie a un forte aumento (vedi il trend annuale nel grafico qui sopra), ora il maiale – nella categoria principe – è quotato a 1,772, ma i margini sono comunque risicati. Con un costo di ingrasso come quello previsto a novembre,  il margine si ridurrebbe ad appena 0,057 al chilo. Insomma, meno di 6 centesimi, che su un bel maialotto da 170 chili fanno 9,69 euro, per diversi mesi di lavoro.

Ma la crisi finanziaria dei porci non è solo italiana. Proprio a Modena, a metà settembre, si è riunito il Gotha del maiale europeo. I principali analisti suinicoli di Germania, Francia, Spagna e Belgio hanno discusso della situazione. Il tedesco Matthias Kohlmueller (dell’Ami) ha parlato della locomotiva suina d’Europa: la Germania. Berlino ha la popolazione di maiali più numerosa del Vecchio continente, ed è terza al mondo, preceduta solo da Cina e Usa. Eppure, le cose non vanno benissimo. Per quanto riguarda i maiali grassi, i profitti, negli ultimi cinque anni, prima sono cresciuti, poi si sono molto assottigliati. Mentre i suinetti continuano a essere un lavoro quasi sempre in perdita.

Il margine sul maiale grasso, in Germania, è sceso nel 2012 a 8,37 euro a porco

L’allevamento di suinetti è quasi sempre in perdita (aree rosa nel grafico); raramente (aree verdi) c’è un risicato margine positivo

Proprio perché non c’è convenienza ad allevarli, i suinetti vengono importati (nella quasi totalità da Olanda e Danimarca). Ma raggiunta la soglia di 15 milioni di maialini richiesti dalla Germania, i due Paesi confinanti (che riforniscono anche molte altre nazioni) sono al massimo della capacità produttiva, e i tedeschi hanno problemi a veder soddisfatto il loro fabbisogno di giovani porci. Dal 2000 in poi il numero di maiali macellati è salito esponenzialmente (e solo il 2012 dovrebbe segnare un rallentamento, dopo il record di quasi 60 milioni dello scorso anno).

Questo 2012 si chiude poi con un calo di consumo di carne di porco in Germania. La stagione dei grandi barbecue ha visto un -12%. Anche questo è un modo di raccontare come cambia una società, almeno a sentire le parole di Kohlmueller: «A fare da traino è stata solo la carne macinata (spesso mescolata col bovino). È facile da cucinare per i single, e facile da masticare per chi ha problemi ai denti, come i sempre più numerosi anziani. Il maiale sul mercato domestico sta perdendo quote di mercato: nonostante abbia un prezzo più alto, è in aumento la vendita di carne bovina. A incidere è il fatto che, tra i giovani, molte nuove buone forchette sono di religione islamica (per la massiccia immigrazione turca e dai Paesi del Nord Africa). E che nelle mense scolastiche è preferita la carne di mucca perché politicamente più corretta. Diventa così fondamentale l’export, soprattutto verso i nuovi mercati». Nel 2011 le esportazioni di carne suina tedesca verso la Cina hanno segnato uno strabiliante +424% (a quota 68.869 tonnellate) rispetto all’anno precedente. Ma è solo l’inizio.

Anche in Spagna c’è pessimismo, testimoniato da Miquel Angel Berges Saura di Mercolleida: «Il costo della soia è aumentato del 65% da marzo a settembre, cancellando i buoni risultati che si potevano ottenere dalla considerevole riduzione delle scrofe avvenuta dal 2008 a oggi, dal miglioramento dello stato sanitario dei maiali, da un generale aumento produttivo. La volatilità del mercato cerealicolo è altissima e rende molto difficile prendere decisioni. Tutti gli analisti rimangono pessimisti sull’anno prossimo, nonostante il lieve miglioramento della raccolta di mais in Usa e Brasile. Siamo in costante contatto con la Borsa di Chicago. Al momento in Spagna non ci sono abbastanza riserve di cereali; siamo scoperti».

Berges Saura dipinge il quadro di una Spagna in grave crisi porcina: «Il mercato interno è fortemente degradato. Il calo nei consumi di carne è preoccupante. Mancano suinetti. Non c’è offerta. Da Toledo in giù, tutti quelli che allevavano lattonzoli hanno chiuso perché non c’è convenienza, non c’è copertura dei costi. Però, quanto al maiale leggero (100-110 chili) e in parte per quello pesante (più diffuso in Italia per i vostri tipi di prosciutto), da importatori siamo diventati esportatori, con un significativo balzo in avanti dell’export verso i Paesi extra Ue: con Cina e Hong Kong che hanno sorpassato per la prima volta la Russia. Formidabili anche i numeri di Corea del Sud e Giappone, nonostante loro vogliano un tipo di petto più grasso che noi non siamo ancora in grado di produrre. In Spagna, con la soia a +65%, il costo del suino a +13% e i lattonzoli (suinetti) a -34%, l’unico futuro per noi è nell’ingrasso per la vendita all’estero. Grazie a Dio nelle esportazioni c’è il boom. Una crescita che investe anche l’altra carne povera. Ormai è un vero derby – come Barcellona-Real – tra maiale e pollo».

A rappresentare la Francia alla Rencontre porcine c’era Jean Pierre Joly del Marché du Porc Breton. Anche Oltralpe l’aumento del costo dei mangimi sta facendo sì che molti del settore si domandino «se conviene ancora allevare maiali o non sia meglio passare a coltivare cereali». «Da noi si perde un macello a settimana», racconta Joly. «Presto la diminuzione avrà un impatto sui costi d’impresa. Quanto agli allevatori, la fascia d’età ormai è più vicina ai sessanta che ai cinquant’anni, perché manca il ricambio generazionale. È troppo poco appetibile come mercato, e gli investimenti per gli adeguamenti normativi in seguito alla direttiva sul benessere animale lo hanno reso ancora meno remunerativo».

Joly batte molto sul livello del prezzo. Sulla necessità di ritornare ai livelli degli anni Ottanta-Novanta, dopo il crollo in seguito alla riforma della Pac (Politica agricola comune) nel 1992, e nonostante le abitudini tariffarie che si sono imposte in seguito. Anche in Francia l’unico elemento positivo per la redditività delle aziende viene dall’export. «Nei primi sei mesi del 2012 abbiamo il segno più verso i Paesi dell’Ue (+2,56%), verso gli Usa (+4,71%) e il Canada (+6,25%). Ottimo anche il +3,32% verso il Brasile nei primi 7 mesi. Solo il mercato globale permetterà di pagare la carne di più, e darà la speranza della sopravvivenza alla nostra suinicoltura».

E, grafico alla mano (riprodotto qui sopra), Joly ha mostrato al consesso di allevatori e macellatori – che avevano abbandonato per qualche ora i maiali e ascoltavano con l’auricolare la frenetica traduzione degli interpreti – quanto ha influito sulle loro vite, e sulle loro tasche, la riforma della Pac, la riunificazione tedesca, l’allargamento della Ue ad Est, la variazione del cambio valutario euro-dollaro, l’infiammarsi (forse speculativo) del costo delle materie prime alla Borsa di Chicago, la crisi finanziaria mondiale…

E così, se un giorno – ingenuamente – correndo su un’autostrada in mezzo alle campagne, dovesse sfiorarvi il pensiero di dire addio al nostro mondo di swap e derivati, di mini futures e paradisi fiscali, per rifugiarvi finalmente tra i verri e le troie; se avete sognato almeno una volta di ritirarvi a vita agripastorale; se ogni tanto, alla sera, vi consolate – stanchi di quotazioni, ebitda e ricapitalizzazioni – con la teorica chance di abbandonare tutto e di affondare finalmente gli stivali nel grasso fango campagnolo, sappiate che non ci sarà quiete né salvezza. La fuga è impossibile. Riconoscerete subito le sue regole, le sue crisi, le sue amate speculazioni. Appena arrivati nel più sperduto porcile della più remota campagna, troverete la finanza già lì. Intenta a parlare col porco.

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