Nell’anno in cui il cinema italiano lancia sulla polizia uno sguardo assai problematico come in “Acab” quando non apertamente accusatorio come in “Diaz”, la televisione di Stato su Rai Uno ha scelto di risalire ai primordi della Pubblica sicurezza repubblicana con il personaggio forse più leggendario della sua storia: il commissario Mario Nardone. Una visione interessante, molto più che per gli aspetti spettacolari della serie tv, per un dato di – se vogliamo – antropologia giudiziaria: l’epopea del commissario Nardone appartiene infatti allo scenario culturale dell’italiano d’una volta che identificava la giustizia e il suo imporsi con gli uomini delle forze dell’ordine e non con i pubblici ministeri, come accade invece senza dubbio oggi.
Laddove oggi si sente parlare di giornali “bollettini delle procure”, un tempo c’era Crimen, “settimanale di criminologia e polizia scientifica” (oggetto giornalistico oggi impensabile), che in copertina e nelle sue pagine interne recava le notizie delle squadre mobili (non solo Nardone a Milano: a Roma c’era il vicebrigadiere Armando Spatafora, “il poliziotto con la Ferrari”, un vero asso sulla 250 Gte in dotazione alla polizia), e poi le gazzelle, le pantere, le “ghost squads” all’opera sulle strade italiane. Questo seguitissimo racconto popolare, scritto con dovizia e costanza sui rotocalchi e i quotidiani, nasceva dagli atti di criminali solitari o di bande; di uomini come di donne.
E fu ragione della enorme popolarità di Nardone, l’uomo della legge. Colui che risolse casi tra i più celebri, ancora oggi ricordati. Appena giunto nel 1947 in Milano, proveniente dall’esperienza nelle questure di Parma e di Pesaro, al commissario Nardone toccò il caso di Rina Fort, che uccise moglie e tre figli del suo amante. E poi la banda di Pierrot Le Fou, che ammazzò un tabaccaio e un suo amico. E la rapina di via Osoppo, bottino da seicento milioni di lire. E i bravi ragazzi di Angera, che colpivano solo di lunedì. E la banda Cavallero, la “banda della morte”.
Non stupisce se la Arnoldo Mondadori Editore nel 1971 decise di portare nelle librerie un libro per ragazzi intitolato “Il manuale del giovane detective” e di affidarne la scrittura proprio a Nardone. Oggi, a immaginarsi un poliziotto che scrive un manuale per ragazzi, al massimo verrebbe in mente Montalbano: figura, per quanto popolare, rigorosamente irreale.
Per i cronisti era il Maigret di via Fatebenefratelli: paragone certo suggestivo, derivante dalla (quasi) infallibilità del fiuto, ma sostanzialmente infondato. Tanto l’uno era letterariamente grosso e imponente, quanto l’altro piccolo e segaligno, viso scavato alla Eduardo, con dei baffetti stesi sulla bocca sottile. L’uno era taciturno, discreto; l’altro facondo, esplosivo. L’uno così nordico nella sua indole, lo sguardo placidamente bovino; l’altro profondissimamente meridionale, così meridionale da non perdere mai – in lunghi decenni padani – l’accento campano, da esser chiamato in famiglia da consorte e pargoli “il terroncello”, da avere in gioventù perfino scritto canzoni napoletane, benché non amasse ricordarlo…
Divenne poliziotto perché il padre lo era, così diceva. Nacque in un piccolo paese irpino, Pietradefusi, che originò la famiglia d’un altro tipo celebre che al crimine si sarebbe dedicato (ma come narratore): Mario Puzo, l’autore del “Padrino”.
Milano fu il palcoscenico di Nardone, con le sue strade, i suoi locali, la sua vita notturna, fervida quanto la diurna così operosa. E poi l’ufficio pieno di telefoni, e soprattutto la sua squadra mobile, che lui creò, e i suoi ragazzi, così devoti. Divenne vicequestore, poi questore a Como. Fece carriera; la sua immagine popolare gradatamente tramontò.
E intanto era venuta la Contestazione. Nemmeno più in polizia c’erano cittadini “al di sopra di ogni sospetto”.