Nella Sicilia che l’attualità restituisce, sempre più preoccupata per una lunga gestione dissennata delle sue risorse, nella quale incapacità e interessi particolari hanno lavorato fianco a fianco nella distruzione pervicace di quanto pochi tentavano di costruire, una notizia che regala speranza. A Piazza Armerina, in provincia di Enna, rinasce la villa romana. Uno dei gioielli dell’arte romana, patrimonio dell’Unesco dal 1997, alle falde del Monte Mangone, circa 6 km a sud-ovest da Piazza Armerina, in una conca circondata da basse colline ricche di vegetazione, è rinato a nuova vita. I più di 18 milioni di euro, per tre quarti a carico dell’Ue, che hanno reso possibili i lavori, protrattisi per sei anni, hanno consentito di far uscire la famosa villa dalla black list dei Beni culturali italiani allo sfascio.
Una villa, anzi la villa per eccellenza, della Sicilia nel tardo-antico. Accanto agli impianti, minori, di Patti Marina, presso Tindari, di Caddeddi, nella valle del Tellaro, vicino a Noto e di San Nicolò di Carini, a ovest di Palermo. La prova più significativa della prosperità della campagna isolana nella tarda età romana. Le strutture della villa, realizzata nella prima decade del IV secolo d. C., dopo la demolizione del precedente impianto del III secolo d. C., costituiscono la più sontuosa residenza di campagna finora nota nell’intero mondo romano, che nella pianta ricorda quella in località Loffelbach presso l’antica Flavia Solva nel Norico. Era organizzata su vasti spazi intorno al peristilio principale, due più piccoli spazi con un grande impianto termale e due enormi triclinia. Tranne un paio delle sue cinquanta e più stanze e corridoi, aveva tutta la superficie ricoperta con costosi pavimenti a mosaico vistosamente policromi, molti dei quali figurati. Come quelli con le raffigurazioni di Ercole e di Polifemo e la loro glorificazione delle attività edonistiche dal sapore provocatoriamente pagano. Oppure quelli della Sala delle Ginnaste, del Triclinio o della Basilica.
Le maestranze che li avevano eseguiti erano quasi certamente africane, forse operanti a Cartagine, mentre la sala più grande aveva un pavimento in opus sectile. Affreschi o crustae marmoree adornavano le pareti e un ulteriore tocco di eleganza era dato da un gran numero di colonne di marmo, da statue di marmo e giochi d’acqua.
Le strutture sigillate dal fango precipitato dai costoni sovrastanti a causa del disboscamento dissennato, dopo aver resistito ai Vandali, ai Goti e alla furia devastatrice del re normanno Guglielmo “il Malo”, che nel XII secolo rase al suolo quanto restava della residenza di Massimiano Erculeo, tetrarca di Diocleziano incaricato di importare le bestie feroci per i giochi di Roma, necessitavano di un intervento. Così i mosaici, in diversi punti obliterati da polvere, alghe, licheni e, soprattutto, batteri. Il vecchio allestimento, curato alla fine degli anni Cinquanta dall’architetto Franco Minissi, per certi versi appariva inadeguato ad assicurare in buona salute il complesso archeologico, oltre ad una sua piena godibilità. Gionata Rizzi, l’architetto che, con Guido Meli, curatore del restauro e direttore del parco archeologico della Villa, ha firmato il progetto della nuova copertura. Una struttura in rame e legno, areata, che consente, finalmente, al visitatore di osservare, con calma e la giusta temperatura, i celebri mosaici. Costituiti dalle circa 120 milioni di tessere, per 4100 metri di pavimentazione, sulle quali si sono spesi cinquanta giovani restauratori di tutta Europa diretti da Roberta Bianchini.
Il restauro ha anche permesso la scoperta di ottanta “nuovi” metri quadri, tra porticato colonnato, vasca absidata, pavimento a mosaico e affreschi. Ma non solo di un’operazione di microchirurgia si è trattato. Legno lamellare e rame verde come copertura, per evitare che la luce diretta potesse continuare a “sbiancare” i mosaici. Ma anche una nuova illuminazione. Le polemiche infinite, arricchite anche da una raccolta firme contro il progetto, interrotte dall’inaugurazione del nuovo percorso, il passato 4 Luglio.
Un’operazione che ha tra le aspirazioni quella di incrementare il numero dei visitatori, oscillanti intorno al mezzo milione. Inserendo la visita alla villa in un percorso articolato che prevede anche il Museo della vicina Aidone, nel quale da pochi mesi è possibile ammirare, nuovamente, la Venere di Morgantina. I curatori del nuovo intervento sottolineano che della musealizzazione curata da Minissi hanno “in fondo cambiato solo la pelle, mantenendone l’anima”. La rimozione della “serra” che ricopriva il tesoro siciliano, scavato a partire dagli anni Cinquanta da Gino Vinicio Gentili, ha eliminato l’effetto chiaroscuro delle ombre proiettate dalla struttura metallica sui pavimenti. Restituendo alla Sicilia il suo glorioso passato.
Un impianto, unico, dell’antichità romana, al centro di un’intensa attività agricola, resa possibile dalla sua posizione in prossimità di eccellente terra coltivabile. Forse il futuro della Sicilia sta nel suo passato, fatto di archeologia e agricoltura. Utilizzare le proprie risorse, senza mortificarle, è la sfida da vincere. Nel 456, con una flotta di 60 navi, Genserico, re dei Vandali, devastò la Sicilia e passò lo stretto. Da allora nulla sembra essere davvero cambiato. E’ giunto il momento che la barbarica vastitas abbia termine.