No, quello dell’Aquila non è stato un processo alla scienza. Nessun Galileo da tirare in ballo come ha fatto oggi il ministro dell’Ambiente Corrado Clini. Non c’entra Galileo, né Giordano Bruno, né la cultura antiscientifica di matrice crociana di cui è tristemente pervaso il paese. E con questo abbiamo esaurito le buone notizie sul processo dell’Aquila che si è concluso, in primo grado, con la condanna a sei anni, con l’accusa di omicidio colposo plurimo, al gotha della nostra sismologia, i sette componenti della commissione Grandi Rischi della Protezione Civile (Franco Barberi, Enzo Boschi, Mauro Dolce, Bernardo De Bernardinis, Giulio Selvaggi, Claudio Eva, Gianmichele Calvi). A leggere la requisitoria del pm Fabio Picuti (in attesa delle motivazioni) e le analisi che ne sono uscite, quello che ne viene fuori è meglio e peggio di un processo alla scienza. Si è trattato infatti di una sentenza che più che condannare il metodo sperimentale su cui è basata la ricerca scientifica – ci mancherebbe altro – condanna il modo in cui è stata comunicata. O meglio, il modo in cui non è stata comunicata la verità scientifica raggiunta.
Partiamo da una domanda. Gli scienziati sono colpevolI di quei 309 morti? Risponde bene, su Il Centro, il giornalista Giustino Parisse che ha perso due figli nella tragedia: «Eppure anche di fronte a una condanna tanto dura non riesco a immaginare quegli uomini, che ora potrebbero rischiare il carcere, come gli assassini dei miei figli.[…] No. Non me la sento di gridargli contro la mia rabbia. Quella continuo a gridarla a me stesso. Sono io la causa prima della morte di Domenico e Maria Paola e non me lo perdonerò mai. Certo fra le tante colpe che ho c’è anche quella di essermi fidato della commissione Grandi Rischi credendo a una scienza che in quella riunione del 31 marzo del 2009 rinunciò a essere scienza».
E arriviamo così al punto. Più che un processo alla scienza è stato un processo al modo in cui la scienza è stata usata, al modo in cui, avrebbe detto Althusser, è diventata ideologia. Il Pm, che aveva chiesto una pena inferiore, a 4 anni, afferma nella requisitoria che «le considerazioni che seguono non hanno lo scopo di accertare la fondatezza delle posizioni scientifiche circa la possibilità (o, meglio, l’impossibilità) di prevedere i terremoti; o circa la validità degli studi sui cosiddetti precursori quali strumenti di previsione dei terremoti». Anche perché «i terremoti non si possono prevedere, e questo lo si è già dato per acquisito». Il punto è invece che «ciò che agli imputati era richiesto, per legge, era l’analisi del rischio e una corretta informazione». In pratica, per farla breve, si sono spesi troppo nel tranquilizzare la popolazione.
Ma se è stato un processo all’informazione, allora gli scienziati c’entrano poco da un punto di vista legale e molto da un punto di vista etico. Naturalmente, resta fermo che i processi dovrebbero riguardare solo la legge e il suo mancato rispetto, ma ciò non toglie nulla all’obbligo di guardare a quanto, da quel processo, è stato accertato. L’accusa imputa di aver dichiarato che la famosa riunione del 31 marzo della Commisione Grandi Rischi, nel comunicato stampa, veniva descritta come avente «l’obbiettivo di fornire ai cittadini abruzzesi tutte le informazioni disponibili alla comunità scientifica sull’attività sismica delle ultime settimane» cosa che non sarebbe stata fatta. Non tanto e non solo nel comunicato al termine di quella riunione ma in molte affermazione ai media e anche in alcune intercettazioni, non è stata detta tutta la verità. E non ha certo aiutato la causa degli scienziati la telefonata del 30 marzo 2009, una settimana prima del sisma, in cui Guido Bertolaso (all’epoca saldissimo numero uno della Protezione Civile) chiama Daniela Stati, assessore regionale alla Protezione Civile, e le spiega che quella riunione della Commissione sarà «un’operazione mediatica».
Gli scienziati avrebbero dovuto essere più netti nel dire che non sapevano con ragionevole certezza se quello sciame sismico avrebbe dovuto essere ragione di preoccupazione o meno. E se non l’hanno fatto, hanno abdicato a quel principio di condivisione delle informazioni su cui è basata la vita della comunità scientifica. Per scrivere la Divina Commedia – si sa – o nasce Dante o nessuno la scrive mentre le grandi scoperte scientifiche sono prodotto del lavoro di una comunità, Leibniz e Newton litigano a lungo sulla paternità del calcolo infinitesimale, Meucci e Bell su quella del telefono… Se gli scienziati non l’hanno fatto è perché, come mostra la telefonata di Bertolaso, c’era un input politico dietro a quella riunione stranamente durata solo un’ora.
Concludendo: la sentenza è sbagliata ma non perché si tratta di un processo contro la scienza. Come scrive Nicola Nosengo, che ha seguito tutta la vicenda per la rivista Nature, «il processo ha provato oltre ogni ragionevole dubbio che quei 29 cittadini de L’Aquila oggi sarebbero sicuramente vivi se quei 7 imputati avessero fatto qualcosa di diverso? Mi pare che la risposta sia no. Gran parte dell’accusa si basa su ciò che altri ricordano sui motivi delle decisioni prese dalle vittime ormai anni fa. Con l’assoluto rispetto che si deve a chi ha perso familiari e amici in quella tragedia, e della cui buona fede non è lecito dubitare, bisogna dire che mandare in galera sette persone su questa base è un grande azzardo giuridico».
Inoltre, il problema morale sottostante (morale, non giuridico) dovrebbe essere posto, almeno al pare degli scienziati, a quella politica che ha dato l’input, trovando nella scienza invece che un argine di verità un docile megafono dei suoi desiderata. Come hanno osservato anche altri, la scienza ha certamente fatto un errore madornale, etico e morale, ad essere prona alla politica, come si vede dal fatto che diversi tra gli imputati hanno apertamente preso le distanze da quei messaggi che finivano con l’escludere la possibilità di un forte terremoto. Ma questo è un problema che abbiamo già discusso, che non riguarda solo la scienza ed ha semmai a che fare con la difficoltà che c’è in questo paese a sapere dire di no al potere. Tale capacità è misurata da un’indice specifico, il Pdi, di cui abbiamo appunto scritto in passato. Anche in questo caso è stata la mentalità servile a fare danni, e questo vale sempre: soprattutto quando la classe dirigente di un paese preferisce cani da compagnia a “cani da guardia”.
Twitter: @jacopobarigazzi