Anche dopo le regionali, la Sicilia della politica sembra più che altro indaffarata a cercare nuovi equilibri. I partiti sono in affanno, ma anche spasmodicamente intenti a occupare “caselle”, a rivendicare incarichi, acomporre la nuova squadra di governo. E se si va a guardare fra le priorità ripetute in campagna elettorale dai diversi contendenti, si nota che un ruolo quasi insignificante lo hanno giocato i beni culturali. Sono celebri in tutto il mondo, ma nella gran parte dei casi, restano trascuratissimi. E così ci sono aree archeologiche con monumenti in stato precario e prive dell’idonea musealizzazione. Oppure palazzi storici fatiscenti. Insomma, molto dovrebbe farsi per uscire dal lungo crepuscolo, ma l’importante è che ad occuparsene siano personalità competenti, che restituiscano ai beni culturali siciliani il decoro che meritano. Servono pensieri (e azioni) che abbiano un segno positivo. Il contrario di quanto frequentemente si è verificato finora. Anche recentemente, come nella metà del passato agosto.
Cosa accadde? L’allora neo assessore ai Beni Culturali e alle Identità siciliane pensò a come accrescere l’appeal del patrimonio archeologico isolano nei confronti del turismo. Ed ebbe un’idea sensazionale: coprendo i teatri antichi. La pensata dell’assessore, tanto strampalata da assomigliare ad una boutade estiva, era un’eccentricità non richiesta, che quasi nascondeva due importanti, e recenti, eventi. La riapertura al pubblico, dopo il restauro delle parti antiche e il riallestimento del complesso, della villa del Casale a Piazza Armerina. E, poco prima, delle indagini di scavo all’interno del tempio R di Selinunte, con la scoperta di una struttura cultuale precedente.
Basta questo per far notare come la Sicilia abbia una concentrazione di beni culturali altissima. Selinunte, la Valle dei Templi di Agrigento, Mozia, la Dea di Morgantina, il Satiro danzante di Mazara del Vallo, il cuore storico di Caltagirone, il Duomo di Monreale e quello di Cefalù, la Cattedrale di Noto, il castello Maniace di Siracusa, ad esempio. Si tratta di un patrimonio dal valore assoluto, e questo lo riconoscono tutti. Eppure niente ha impedito che i calcoli della politica regionale, e gli equilibri dello scorcio del precedente governo, lo consegnassero nelle mani di Amleto Trigilio. Un cinquantaduenne socio di una società di formazione professionale. Il suo curriculum in tema di politiche culturali, però, era inesistente. Perfino anche per quel che riguardava la sua città, Siracusa. Cose senza importanza.
Il 34esimo assessore dell’era di Raffaele Lombardo, in compenso, era nella cerchia di Mario Bonomo, deputato regionale con un ben fornito serbatoio di voti nell’area siracusana. E allora si dà il benservito a Sebastiano Missineo, l’assessore uscente, che in un’intervista a LiveSicilia dichiarava candidamente di essersi fatto da parte dopo aver confessato al governatore di non avere le capacità per intraprendere “un’azione più elettorale”. E avanti con il nuovo responsabile, che a dispetto dell’assoluta inesperienza nel settore, aveva ben chiari i problemi che soffocano i beni culturali. «Carenza di fondi e lungaggini burocratiche in primis», dichiarò.
A detta sua, la ricetta per uscire da una situazione in cui la precarietà è condizione tutt’altro che momentanea, era avere «qualche idea rivoluzionaria». E allora ecco quella sui teatri, tipologia architettonica piuttosto diffusa sull’isola, formulata attraverso un’ispirata proposta: «Una gara internazionale che coinvolga i migliori architetti del mondo per progetti di copertura. Una soluzione unica ad un doppio problema: la scarsa fruibilità nel corso dell’anno e l’erosione, soprattutto, in inverno».
Peccato che il problema, doppio o meno, sia di tutt’altro tipo. Il teatro greco di Siracusa, così come quelli di Taormina, o Selinunte, Segesta e Morgantina, con una copertura vedrebbero mutare la forma originaria, con il conseguente stravolgimento anche della visione. Sia quella dall’interno che quella dall’esterno.
La valorizzazione della visione panoramica (da cui ad esempio il teatro di Siracusa non doveva essere esente, offrendo la visione dell’arco del porto e dell’isola di Ortigia) era caratteristica comune a tutti gli edifici per spettacolo di età greca. I teatri antichi, va ricordato, sono opere architettoniche ricavate nei fianchi di pendii rocciosi, grazie a grandissime capacità progettuali e tecniche. E adesso, per certi versi, vengono minacciati da un’idea strampalata. Tanto da far sospettare che fosse priva, probabilmente, di qualsiasi conoscenza del contesto nel quale si opera e lanciata più con il desiderio di stupire che per reale convinzione. Il tutto, per tornare all’inizio, per rispondere ai calcoli della politica.
La morale è questa: teatri realizzati per poter rappresentare le tragedie dei grandi commediografi greci, cavee nelle quali sono risuonate le invocazioni de I Persiani o delle Etnee di Eschilo, sarebbero ridotte a pretesto per piazzare il sodale di un potente politico locale. Ora, con le elezioni, una nuova chance per la Sicilia. Anche in tema di beni culturali.
Si spera, almeno. Perché l’inverno dell’archeologia italiana continua, in mezzo a progetti sventati per un pelo (per fortuna) e quelli (purtroppo) realizzati. Resta ancora l’ipotesi di un porto turistico davanti a Taormina, con la posa di una diga lunga più di 850 metri e alta sei e mezzo, ricoperta, con il beneplacito della soprintendenza, «dalle bellissime maioliche siciliane» e il restauro in tufo, fatto realizzare dal commissario straordinario della Protezione civile, del teatro di Pompei. A Taormina come a Pompei. In Sicilia come in Campania. Non servirebbero idee stupefacenti. Sarebbe sufficiente avere delle idee, magari proposte da persone competenti. Sembra semplice. Ma forse è (ancora) impossibile.