Abigail Fisher ha 22 anni, da pochi mesi si è laureata in giurisprudenza, fa l’anialista finanziaria a Austin, ma non ha nessuna virtù particolare. Detto questo, Abigail, prima della fine del mese potrebbe passare alla storia come la donna che ha cambiato, ancora una volta, la storia razziale degli Stati Uniti. Come Rosa Parks, ma 50 anni dopo e, dettaglio non da poco, dalla parte dei bianchi.
Lo scorso 10 ottobre, la giovane è stata ascoltata dalla Corte Suprema per esporre il suo caso e l’ingiustizia di cui sostiene di essere stata vittima: nel 2008, infatti, Abigail fece il test per essere ammessa alla University of Texas, l’ateneo già frequentato da suo padre e dai suoi fratelli. Fu respinta. Secondo l’Università, la sua prova era inadeguata. «No, i test andavano bene – dice la ragazza – sono stata esclusa perché sono bianca».
La questione, in realtà, è un po’ più ampia e complessa di così perché l’accesso nelle università e nei college, dagli anni ‘60, è regolamentato dall’Affirmative action, l’ordine esecutivo firmato da John Kennedy, e che da allora costituisce una specie di codice Cencelli di accesso etnico (e religioso, sociale, di genere e di orientamento sessuale) alle università Usa. In pratica, la legge impone che, fatti salvi i risultati dei test di ammissione, un quarto dei posti disponibili sia spartito tra le varie “categorie”: neri, ispanici, asiatici. La legge fu pensata per consentire a tutti i meritevoli, indipendentemente dalla condizone di origine, di accedere agli studi, in un paese, l’America degli anni ’60, dove la storia dei diritti civili era ancora tutta da scrivere.
Col tempo poi, le cose sono cambiate fino ad arrivare a un paese come quello di oggi, in cui, sotto la presidenza di Barack Obama, le tensioni razziali sono ancora fortissime, ma frammiste a miserie diverse e trasversali, tanto da apparire superate. In un Paese che sembra uscito da uno scena di “The Walking Dead” la guerra non è più tra bianchi e neri, ma tra ricchi e poveri, tra sommersi e salvati, in un universale tutti contro tutti.
Il caso di Abigail Fisher, ossia di una bianca che grida alla discriminazione a favore dei neri, non è il primo di questo tipo. Nel 2003, di nuovo la Corte Suprema, fu chiamata a esprimersi sul caso Grutter contro Bollinger. In quell’occasione, Barbara Grutter, aveva citato l’università di Legge del Michigan per essere stata esclusa dalle selezioni in nome dell’Affirmative action.
In quell’occasione i nove giudici diedero torto alla studentessa e confermarono l’Affirmative action, dicendo che «Quella operata dalle università era una discriminazione costituzionalmete ammissibile, per promuovere i vantaggi educazionali e didattici che derivano da un corpo studentesco il più eterogenio possibile. La missione delle università è creare buoni leader e buoni cittadini. Dal college escono i potenzali presidenti, e un potenziale presidente deve aver conosciuto più persone e mentalità possibili». Lo scarto, in quell’occasione fu minimo di 5 a 4 voti, con il voto determinante del giudice Sandra Day O’Connor, ora ritirata.
Il suo sostituto, dal 2006, è Samuel A. Alito Jr. (nominato da Bush e di area repubblicana) che non ha mai mostrato particolare sensibilità per i temi razziali. Il giudice Alito, questa volta potrebbe contribuire a licenziare una sentenza diversa, e mandare in soffitta l’Affirmative action di kennediana memoria. Sulle stesse posizioni di Alito, anche altri giudici del supremo organo americano: il primo giudice John Roberts (nominato da Bush padre), Antonin Scalia (nominato da Reagan) Clarence Thomas (nominato da Bush figlio).
Su posizioni più “progressiste” e dunque favorevoli alla legge esistente i giudici Ruth Bader Ginsburg e Stephen Breyer (voluti da Clinton) e l’unica obamiana Sonia Sotomayor. Ne mancano due: Elena Kagan, che si è autoricusata per un sospetto conflitto di interessi, e il reganiano Anthony Kennedy che farà da ago della bilancia. I giochi sul caso Fisher sono dunque decisamente aperti, e la sensazione che si riceve dalla stampa americana, incluso il sinistrorso New Yorker, è che stavolta l’Affirmative action sia destinato alla soffitta, come se l’anonima studentessa texana abbia saputo aprire il vaso di Pandora di un’America già in crisi, in cui etnia e razza sono solo uno dei fattori con cui giocare una partita sempre più difficile.
L’America di oggi non è più quella degli anni ’60. Nello studio ovale non siede più un ricco cattolico di Boston, ma un ex povero ragazzo di Chicago educato in una madrasa in Indonesia. E per eleggerlo non è servito nessuna Affirmative action..