Il Tesoro ammette: Google ha eluso Iva per 96 milioni

Il Tesoro ammette: Google ha eluso Iva per 96 milioni

Aggiornamento 28 novembre 16.00

Redditi non dichiarati per 240 milioni di euro e Iva non versata per oltre 96 milioni. È quanto emerge da una verifica svolta dalla Guardia di Finanza di Milano nel maggio 2007 relativa agli anni dal 2002 al 2006. Lo riferisce il sottosegretario all’Economia, Vieri Ceriani, nella risposta scritta all’interrogazione in commissione finanze della Camera presentata da Stefano Graziano (Pd). 

Le Fiamme Gialle hanno fatto visita a Google. Ieri nel primo pomeriggio gli uomini del comando provinciale della Guardia di Finanza di Milano si sono recati nella sede di Big G, vicino a Piazza San Babila, per effettuare un “accesso a fini amministrativi”. Tecnicamente, spiegano dalla Gdf, non si tratta di una vera e propria perquisizione, poiché non è stata disposta dall’autorità giudiziaria e il materiale utile alle verifiche fiscali è stato soltanto “preso in prestito” e non sequestrato, ma le modalità di esecuzione sono le medesime. Per quanto si tratti di «una normale attività di routine» che non è stata avviata, assicurano dalla polizia tributaria, in seguito a un esposto. Per avere i risultati dell’accertamento – e dunque per capire se il motore di ricerca di Mountain View abbia posto in essere un’eventuale attività di elusione nei confronti del fisco italiano – bisognerà attendere un mese e mezzo. Il contesto entro il quale si è mossa la Gdf è invece chiaro, e rientra nella battaglia della Commissione europea contro le multinazionali che, pur essendo presenti in tutti i Paesi europei, pagano le tasse soltanto in Irlanda, dove l’aliquota è al 12,5% rispetto a un’imposizione che, in Italia, arriva al 68,3% dei profitti. (Fonte: Pwc su dati Eurostat)

Il tema è dunque se a Milano si fa attività commerciale o se si eseguono soltanto gli ordini che arrivano da Dublino. La posizione ufficiale della società è che in Italia sono occupati soltanto consulenti, soprattutto nel marketing, ma fonti interne alla società – pur affermando che tutti i contratti arrivano dall’Irlanda – ammettono che il personale italiano svolge anche attività commerciale. Contattata da Linkiesta, la società rende noto che: «Google rispetta le leggi fiscali in tutti i Paesi in cui opera», aggiungendo: «Siamo fiduciosi di rispettare anche la legge italiana. Continueremo a collaborare con le autorità locali per rispondere alle loro domande relative a Google Italy e ai nostri servizi». 

Patria dei fondi hedge, con oltre 2mila miliardi di dollari gestiti a marzo 2012, l’Irlanda è riuscita con le unghie e con i denti a tenere il regime fiscale agevolato che la caratterizza fuori dalle condizioni negoziate con Bruxelles all’epoca del bailout da 85 miliardi di euro di fine 2010. Facebook, Amazon, Apple, Google. Sono solo alcune delle società che da Dublino coordinano le operazioni nell’area Emea e che sono finite nel mirino di Michel Barnier, commissario al Mercato interno, e di Algirdas Semeta, commissario alla Fiscalità. L’esecutivo comunitario vuole infatti fare luce sulla natura delle attività di una multinazionale all’interno di uno Stato membro. Della serie: un conto è avere un ufficio di rappresentanza e un altro svolgere una normale attività commerciale. In quest’ultimo caso, la tassazione sugli utili che vale è quella del Paese dove l’attività è svolta – e non quella del Paese dove la multinazionale ha la sua sede legale – al netto degli accordi comunitari sulla doppia imposizione. 

Simili raccomandazioni sono giunte anche dall’Ocse, che ha chiesto ai ministri delle Finanze dei Paesi del G20, a margine del meeting dello scorso novembre, di predisporre un’armonizzazione fiscale per evitare forme di “dumping” legale. I capofila sono Germania e Inghilterra, ma la più attiva è la Francia, Paese dove il tema della tassazione delle web companies è molto dibattuto. Infatti l’ex premier Nicholas Sarkozy si era speso molto per la creazione del Consiglio internazionale del digitale, una sorta di agenzia composta da una ventina di esperti con il compito di stilare un’agenda digitale comunitaria con le relative norme.

Le motivazioni del suo successore all’Eliseo, Francois Hollande, sembrano dettate più dalla necessità di reperire risorse fresche a servizio del bilancio dello Stato, esattamente 20 miliardi di euro in più entro il 2013. Come riporta oggi l’agenzia Bloomberg, il senatore e membro della Commissione finanze transalpina Philippe Marini ha calcolato in 500 milioni di euro l’anno gli introiti che potrebbero rimpinguare le casse pubbliche francesi se il digitale fosse tassato come le altre attività economiche. «Queste somme evase hanno attirato la nostra attenzione, soprattutto in un periodo in cui gli Stati europei sono chiamati a uniformare le proprie finanze pubbliche». «In Europa c’è la volontà di armonizzare la tassazione, ma il processo è troppo lento. La Francia è favorrevole ad accelerarlo, poiché le regole varate quando il commercio era soltanto fisico non sono più appropriate», ha detto oggi Fleur Pellerin, ministro della Tecnologia. 

Lo scorso gennaio Benoit Tabaka, ex segretario del Consiglio digitale francese, nel corso di un’audizione presso la Commissione europea ha stimato che Google, Apple, Amazon e Facebook, complessivamente, hanno pagato cento volte meno rispetto ai 5-600 milioni di euro che avrebbero dovuto versare all’erario francese. Più precisamente, 4 milioni di euro sui ricavi digitali rispetto ai 2,2-2,5 miliardi dovuti. Cifre non banali soprattutto in un momento in cui per la prima volta nella storia i ricavi pubblicitari online dell’impresa-nazione Google hanno superato in Usa quelli dei quotidiani, presi nel loro insieme.

Twitter: @antoniovanuzzo