«Questo è l’Egitto che aspettavamo». Così il caporedattore di Al Quds Al Arabi, uno dei principali quotidiani internazionali in lingua araba, sosteneva nel suo editoriale di domenica la gestione della nuova crisi in Medio Oriente da parte del presidente egiziano Morsi. E non è l’unico ad apprezzarla: sempre domenica, il giornale egiziano indipendente Al Shorouk pubblicava un’analisi di Emad Eddin Hussein intitolata “Con Morsi contro Israele”. E in effetti il presidente egiziano sembra raccogliere consensi a livello nazionale e regionale in quella che parrebbe un’auspicata rinascita dell’Egitto nel suo storico ruolo di leader del mondo arabo.
L’Egitto di oggi, ha dichiarato Morsi durante il sermone di venerdì, non è quello di Mubarak, e non resterà fermo davanti alla sofferenza dei fratelli palestinesi. Due giorni prima, il presidente aveva richiamato a Il Cairo il proprio ambasciatore in Israele. Sempre venerdì la televisione saudita Al Arabiya citava le dichiarazioni di Morsi, secondo il quale l’intervento israeliano a Gaza «è un’aggressione contro l’umanità». Sabato, poi, il primo ministro egiziano Hisham Qandil ha visitato Gaza in segno di solidarietà, e sia lui che il presidente hanno assicurato che faranno tutto il possibile per negoziare un cessate il fuoco fra Hamas ed Israele.
Una cosa sembra evidente: il presidente egiziano non è parsimonioso quanto a retorica. Ancora piuttosto debole a livello nazionale, Morsi è consapevole di quanto sia importante ergersi a difensore dei fratelli palestinesi per conquistare consensi tra il popolo. Quella palestinese, si sa, è una questione che sta molto a cuore alle società arabe, e in particolare a quella egiziana: non solo per la naturale solidarietà panaraba, ma anche perché la situazione nei territori palestinesi rappresenta una cartina di tornasole per il ruolo e il peso degli arabi nel mondo.
Dopo la Primavera araba, che ha democraticamente portato al potere vari governi islamisti, non c’è dubbio che gli equilibri regionali stiano cambiando. La Turchia, con un’economia in pieno boom e crescenti ambizioni geopolitiche, guarda alle nazioni arabe come ad alleati naturali nella costruzione di un polo regionale meno soggetto alle influenze esterne. Non a caso dopo la sua riunione con Morsi sabato, in un discorso all’Università del Cairo, il primo ministro Recep Erdogan ha dichiarato che la Turchia e l’Egitto post-Mubarak possono guidare insieme la regione, collaborando per la risoluzione dell’attuale crisi mediorientale.
Dichiarazioni a parte, si ha però l’impressione che nei suoi primi mesi di governo il presidente egiziano abbia fatto ben poco di concreto per la causa palestinese. In fondo Hamas, al governo a Gaza, è un movimento islamista che affonda le sue radici in quello dei Fratelli Musulmani; di sicuro sperava in un appoggio più significativo da parte di Morsi, che alle elezioni presidenziali era appunto il candidato dei Fratelli Musulmani. I leader di Hamas avevano ad esempio auspicato che l’Egitto creasse una zona di libero commercio sul confine con Gaza: il loro governo ne sarebbe uscito rafforzato, e l’economia locale ne avrebbe beneficiato. Al contrario Morsi non si è neanche sforzato di porre fine all’embargo imposto a Gaza nel 2007.
Di fronte ad un Egitto restio ad appoggiare apertamente il governo di Hamas, il Qatar invece non perde tempo. Infatti il primo capo di stato arabo a recarsi a Gaza dall’inizio dell’embargo non è stato Morsi, ma Hamad bin Khalifa Al Thani, emiro del piccolo ma ricchissimo Stato petrolifero; la visita è avvenuta lo scorso ottobre, per inaugurare un progetto nel quale Doha ha investito più di 250 milioni di dollari per la ricostruzione di un migliaio di abitazioni nel sud di Gaza. Tanto è vero che dopo la visita di Al Thani il cartellone fuori dal parlamento di Gaza City, che raffigurava i sorridenti Ismail Haniyeh e Mohamed Morsi stringersi la mano, è stato rimpiazzato. Al suo posto adesso campeggia una grande foto dell’emiro del Qatar. La diplomazia mediorientale (come tutte le altre del resto) si esprime anche attraverso gesti simbolici, e il significato del nuovo cartellone è piuttosto evidente.
Da quando è stato eletto primo presidente dell’Egitto post-Mubarak, Morsi ha dovuto affrontare prove importanti. Un’economia fragile, un tasso di disoccupazione del 12,6%, un deficit pubblico a circa l’80% del Pil, e un quinto della popolazione sotto la soglia della povertà: sono queste alcune delle spinose questioni che Morsi deve affrontare. Un prestito dell’Fondo monetario internazionaleI servirebbe come il pane, ma viene continuamente procrastinato, pur rimanendo all’orizzonte. Questo vero e proprio dramma economico colpisce un popolo tutt’altro che unito nel suo giudizio sul presidente islamista. E infatti le valutazioni dei primi 100 giorni della nuova amministrazione da parte delle forze politiche e della società civile egiziana non sono state particolarmente favorevoli.
Soprattutto sul piano diplomatico, Morsi ha mantenuto una linea molto pragmatica. Non si è abbandonato a grandi gesti di politica internazionale che suggeriscano un cambiamento significativo rispetto all’epoca di Mubarak. In realtà tanta cautela non deve sorprendere. Morsi proviene dalle fila dei Fratelli Musulmani, movimento islamista che, nonostante una linea politica simbolicamente basata sull’Islam, è guidato da un profondo pragmatismo. Quello stesso pragmatismo, peraltro, che ha permesso al movimento di sopravvivere negli anni della repressione di Mubarak. Ecco perché, pur cavalcando l’ondata di sdegno popolare causata dall’intervento israeliano a Gaza, Il Cairo ha concretamente fatto poco per aiutare i palestinesi.
Retorica anti-israeliana di Morsi a parte, l’Egitto sta anzi cercando di conservare il proprio ruolo di mediatore fra israeliani e palestinesi. Non può fare altrimenti, se vuole riaffermarsi come leader storico della nazione araba. Un obiettivo ambizioso, questo, ma condiviso anche da buona parte della società egiziana. Per questo, nonostante una revisione degli accordi di Camp David sia stata spesso ipotizzata dall’elezione di Morsi, è assai improbabile che questi si decida a intraprenderla. Una cosa è certa: gli egiziani sognano che l’Egitto torni alla guida del mondo arabo. Ma come sembra aver capito il Qatar, per conquistare influenza sugli instabili equilibri regionali retorica e discorsi infuocati non bastano.