L’impero romano dei Casamonica, quando la malavita è donna

L’impero romano dei Casamonica, quando la malavita è donna

Una ramificata organizzazione criminale fondata sullo spaccio di stupefacenti in un’area ad alta densità commerciale della Capitale. Un’associazione in grado di realizzare un controllo capillare e scientifico del territorio grazie a una rete sofisticata di pusher e vedette con una caratteristica comune: l’essere donna. È questo il tratto distintivo che avrebbe connotato l’azione criminosa del clan Casamonica-Di Silvio nella zona della Romanina tra il quartiere Appio-Tuscolano, Cinecittà e la Via Anagnina, fra il 2006 e l’inizio del 2012. Costituiti da famiglie di rom e sinti emigrate dall’Abruzzo all’inizio degli anni Settanta, composti da oltre mille affiliati e forti di un patrimonio di oltre 90 milioni di euro, i Casamonica sono ritenuti dalla Direzione investigativa antimafia il gruppo malavitoso più potente e radicato nel Lazio. Pur dichiarando un reddito inferiore alla soglia della povertà, riescono a vivere in ville sfarzose protette da recinzioni, videocamere e vigilantes, a girare in Ferrari e altre automobili di lusso, grazie a un’intensa attività di usura, riciclaggio, estorsione, rapimenti e rapine, traffico di droga.

Business che dividono con i rappresentanti di mafia, camorra e ‘ndrangheta nell’entroterra Sud-orientale della Città Eterna, nell’area dei Castelli romani e nel litorale capitolino. Attivo e influente in molteplici settori commerciali ed economici, soprattutto edilizi e immobiliari, ma anche nella gestione di ristorazioni e stabilimenti balneari, nonché nell’investimento di capitali sporchi in diverse società e nella gestione di eventi festivi nelle località balneari laziali, il sodalizio malavitoso è giunto a influenzare e inquinare la stessa vita istituzionale, politica ed elettorale nell’intera regione. Frequenti e proficue le relazioni con altre associazioni criminali: dalla collaborazione con l’ex cassiere della banda della Magliana Enrico Nicoletti, che “vendeva” al clan i debitori insolventi per riscuotere i suoi crediti, al legame con le ‘ndrine dei Piromalli-Molè e degli Alvaro allo scopo di reinvestire i proventi delle attività illecite nella creazione di aziende interessate agli appalti pubblici.

Un impero finanziario costruito in un clima di sostanziale impunità, ma che oggi rischia di essere seriamente colpito e forse travolto nelle sue fondamenta. In questi giorni è in corso nelle aule del Tribunale capitolino presiedute dai giudici per le udienze preliminari il giudizio abbreviato contro 31 esponenti della famiglia nomade. Un processo che potrebbe rivelarsi storico, così come accaduto nella complessa vicenda giudiziaria che ha sancito in primo grado condanne durissime per i rappresentanti dei Casalesi presenti e attivi nel Lazio meridionale. E ciò non tanto per i 330 anni di carcere che i pubblici ministeri della Direzione distrettuale antimafia della Procura di Roma, Roberto Staffa e Antonio Calaresu, hanno richiesto al termine della requisitoria. Pene che oscillano tra i 6 e i 18 anni di reclusione per tutti gli imputati e la cui gravità è stata determinata anche dalla continua reiterazione del reato contestato. Ma perché per la prima volta nella loro storia è stata formalizzata l’accusa di associazione a delinquere nei confronti di diversi appartenenti alla banda. Accusa che potrebbe trovare una solenne consacrazione giudiziaria nella sentenza attesa per il 1 dicembre. 

Perno del crimine previsto dall’articolo 416 del Codice penale è l’ipotesi, suffragata da un ampio e robusto corredo probatorio, di avere costituito e sviluppato una rete raffinata di vendita della “polvere bianca” per quasi sette anni tra via Giuseppe Devers e via Salvatore Barzilai, grazie al ruolo centrale giocato proprio dalle donne nella cessione della droga ai consumatori, nella gestione dei rapporti con gli acquirenti, nella loro selezione e distribuzione ai punti di vendita, nel controllo rigoroso delle vie di accesso alle zone dello spaccio, negli avvertimenti lanciati ai componenti del clan all’arrivo delle forze dell’ordine. Sugli oltre 30 esponenti e affiliati alle famiglie Casamonica, Di Silvio e De Rosa, ben 22 sono donne. Capaci di riprodurre a poca distanza dagli studi di Cinecittà dinamiche affini se non identiche a quelle che guidano la vita nel rione partenopeo di Scampia. Dove le spaventose condizioni di povertà, degrado, disoccupazione al 61,7 per cento della popolazione attiva, costituiscono il terreno fertile per il predominio della criminalità camorristica alimentata dal traffico di droga soprattutto al dettaglio, di cui il quartiere detiene un triste primato in Europa. 

Ricostruendo nel corso dell’udienza i passaggi investigativi cruciali che hanno preparato il terreno per le numerose incriminazioni, i magistrati dell’accusa hanno accentuato tale analogia descrivendo un territorio militarizzato in cui si spacciava senza tregua a ogni ora del giorno e della notte. Ad agevolare il perpetuarsi di una interminabile catena di crimini era un sofisticato complesso di strategie e tecnologie, che includeva l’utilizzo scientifico di telecamere in tutte le postazioni nevralgiche, turni di vedetta e sorveglianza sui tetti dei palazzi, caminetti sempre accesi d’inverno e d’estate per bruciare la cocaina nell’eventualità di una retata delle forze di polizia. Accorgimenti rivelatisi altamente efficaci nel consentire al sodalizio malavitoso una lunga sequenza di illegalità. Fino al 23 gennaio 2012, quando centinaia di agenti e militari dell’Arma, al termine di una rigorosa e complessa attività di monitoraggio, osservazione, pedinamento, video-riprese e identificazioni dei responsabili dello spaccio di droga, circondarono l’area della Romanina divenuta un vero e proprio “fortino indisturbato” per proseguire nel traffico di morte, arrestando decine di componenti del clan e ponendo sotto sequestro i loro beni per 5 milioni di euro.

Fu così che gli inquirenti e gli uomini della polizia giudiziaria portarono alla luce un “tesoro” accumulato grazie agli enormi ricavati della vendita di stupefacenti: ville e abitazioni di lusso, 16 immobili e diversi terreni, 36 macchine di alto prestigio tra cui numerose Ferrari, Rolls Royce, Bentley, 20 orologi di marca, una borsa piena d’oro, conti correnti postali e bancari per un valore complessivo di 500mila euro. Un giacimento di ricchezze reso invisibile grazie a numerose intestazioni fittizie di beni a favore di prestanome compiacenti. 

Le regole previste per condurre in porto la cessione di cocaina rispettavano un copione ben preciso: i consumatori che volevano comprare una o più dosi si fermavano in auto davanti a una delle case individuate preventivamente come sede dello spaccio e denominate “supermarket”. Le strade teatro delle transazioni al dettaglio venivano appositamente limitate attraverso alcune fioriere affinché l’accesso fosse ben controllato dalle vedette e dalle videocamere. Ad accogliere il cliente era una donna, che tramite una grata trasmetteva la richiesta a una sua compagna all’interno dell’appartamento incaricata di preparare la quantità di droga. Per evitare di destare sospetti, l’acquirente, spesso un ragazzo tra i 18 e i 25 anni, era obbligato a spostarsi e a girare intorno al palazzo fino a quando non veniva avvertito che il prodotto era pronto. Altre componenti dell’organizzazione, svolgendo funzioni in ogni momento intercambiabili, vigilavano e operavano da posizioni di controllo affinché gli affari si svolgessero senza ostacoli. Si trattava di una forma di “meccanismo a pedaggio” articolato in diversi “check-point” per il pagamento e il ritiro della “merce”. Proprio come nelle zone di guerra. 

Per comprendere pienamente il protagonismo delle donne nel mettere in atto l’intero disegno criminoso è sufficiente considerare con attenzione la posizione processuale emblematica di due imputate, la trentaduenne Adelaide Casamonica e la cinquantunenne Laura Casamonica. Rappresentanti di due distinte generazioni di una realtà familiare in cui anche anche le attività illegali vengono trasmesse dalla madre alla figlia, entrambe devono rispondere di molteplici cessioni retribuite – ben nove nel primo caso – di diversi grammi di cocaina ad alcuni consumatori. 

La netta impronta matriarcale, che come in tutte le comunità nomadi connota gran parte della vita quotidiana nel clan Casamonica, non deve però trarre in inganno. Se il ruolo del gentil sesso costituiva un fattore cruciale per lo sbocco positivo delle cessioni di cocaina, erano gli esponenti maschili del clan a riciclare le immense risorse ottenute. E a reinvestirli in ulteriori rifornimenti di cocaina, nell’acquisto di immobili e autovetture di grossa cilindrata, nella lucrosa attività dell’usura.
 

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