«Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti. Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano». Sono i celebri versi della poesia Il Pci ai giovani in cui Pier Paolo Pasolini, all’indomani degli scontri di Valle Giulia, a Roma, si schiera con i poliziotti contro gli studenti: «Avete facce di figli di papà. Vi odio come odio i vostri papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete pavidi, incerti, disperati (benissimo!) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: prerogative piccolo-borghesi, cari».
La poesia viene pubblicata nel numero del settimanale L’Espresso del 16 giugno 1968, al tempo diretto da Nello Ajello, e provoca un putiferio: uno dei più autorevoli intellettuali di sinistra dell’epoca, si schiera apertamente con i poliziotti e se la prende con gli studenti. «Ma, soprattutto, come potrebbe concedersi un giovane operaio di occupare una fabbrica senza morire di fame dopo tre giorni? e andate a occupare le università, cari figli, ma date metà dei vostri emolumenti paterni sia pur scarsi a dei giovani operai perché possano occupare, insieme a voi, le loro fabbriche. Mi dispiace».
In realtà le cose sono un pochino più complesse: Pasolini aggiusta parzialmente il tiro, i giornaloni passano la notizia quasi sotto silenzio, mentre nella poesia – lunghissima e per questo scarsamente letta – si esprimono anche altri concetti che, con un linguaggio attualizzato, ricordano da vicino la rottamazione. «Il Pci ai giovani, ostia!», scrive Pasolini, in un’invettiva che, interiezione a parte, potrebbe essere condivisa anche da certi boy scout odierni.
Nel Corriere della sera dell’epoca non si trova eco delle posizioni pasoliniane. Vero, in quei giorni succede di tutto: dall’attentato a Robert Kennedy (muore il 6 giugno), alla vittoria dell’Italia di Ferruccio Valcareggi negli europei di calcio (10 giugno, due a zero contro la Jugoslavia, gol di Gigi Riva e Pietruzzo Anastasi), dalla crisi di governo (si va verso la compagine “balneare” di Giovanni Leone), alla morte del Nobel per la letteratura Salvatore Quasimodo (14 giugno), alle contestazioni che travolgono la Triennale di Milano e la Biennale di Venezia (l’inviato è Dino Buzzati, il 21 giugno scrive: «Una paradossale quasi grottesca situazione: senza occupazioni, senza atti di violenza meno di cento giovani tra studenti dell’accademia, studenti dell’istituto di architettura e artisti, complice un nodo di circostanze che teoricamente dovevano essere a loro avverse, hanno messo in gravissima crisi la Biennale di Venezia». Un mucchio di cose, insomma, ma se si trova lo spazio per pubblicare il fondamentale articolo: “Vecchi e giovani automobilisti si accusano a vicenda in Austria”, a firma del corrispondente da Vienna, Ettore Petta, 19 giugno, pagina 15, forse si poteva riportare anche il trasgressivo pensiero di PPP (quando, quattro anni più tardi, Piero Ottone sostituirà Giovanni Spadolini alla direzione del Corriere, Pasolini sarà chiamato a collaborare).
Ne parla invece La Stampa, il 12 giugno, a pagina 3. Un taglio basso titola: “Pasolini contro gli studenti filocinesi. «Avete facce di figli di papà. Vi odio»”. E dopo aver citato un po’ di versi pasoliniani, l’articolo riporta la dichiarazione di due rappresentanti del Movimento studentesco che definiscono Pasolini «venduto al capitalismo» e poi afferma: «Abbiamo deciso di non infierire su Pasolini dato che la sua poesia è stata smentita dalla storia». Su un fronte decisamente opposto si schiera il segretario della Cgil, Vittorio Foa: «Pasolini ha una visione immobilistica della lotta di classe e del movimento operaio. Non capisce gli studenti appunto perché non capisce ciò che sono oggi gli operai».
Pier Paolo Pasolini sembra invece modificare un po’ il senso dei suoi versi. «L’oggetto del mio disprezzo», dichiara alla Stampa, «sono quegli adulti, quei miei coetanei, che si ricreano una specie di verginità adulando i ragazzini. Quando l’operaio si muove e occupa una fabbrica, fa la rivoluzione, lo studente, quando occupa una università, fa soltanto la guerra civile».
In coda all’articolo è impaginata, con una malizia che non sembra affatto casuale, una breve notizia dal titolo: «Gli studenti cinesi inviati nei campi a lavorare».
Un anno dopo, lo scrittore friulano, ha modo di precisare ulteriormente nel Tempo illustrato che quella famosa frase «non era che una boutade, una piccola furberia oratoria paradossale, per richiamare l’attenzione del lettore, e dirigerla su ciò che veniva dopo, in una dozzina di versi, dove i poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale alla rovescia, in quanto il potere oltre che additare all’odio razziale i poveri – gli spossessati del mondo – ha la possibilità di fare anche di questi poveri degli strumenti, creando verso di loro un’altra specie di odio razziale; le caserme dei poliziotti vi erano dunque viste come ghetti particolari, in cui la qualità di vita è ingiusta, più gravemente ingiusta ancora che nelle università».
La poesia Il Pci ai giovani, come detto, va ben oltre alla questione studenti-poliziotti. «Se volete il potere, impadronitevi, almeno, del potere di un Partito che è tuttavia all’opposizione (anche se malconcio, per la presenza di signori in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote, borghesi coetanei dei vostri schifosi papà)», conclude un Pasolini in formato rottamatore.