Jack Hood Vaughn
(18 agosto 1920 – 29 ottobre 2012)
Di Columbus, Montana: un cittadino americano, laureato in economia, ma soprattutto bravo nell’organizzare la presenza degli Stati Uniti nel mondo. In senso buono: con i suoi “Peace Corps” – oggi ottomila volontari – ha perfezionato, nei primi anni Sessanta, un tipo di assistenza a ventaglio in 50 Paesi. Assistenza su progetti concreti.
Barack Obama e Mitt Romney avrebbero anche potuto citarli, nei loro tre scontri pubblici: i “Peace Corps” rappresentato l’altro ritratto degli Stati Uniti, fanno buona propaganda alla superpotenza ancora impelagata in armi ad est di Suez. Sono stati un’ idea “globale” dei tardi anni Cinquanta. Li ha presieduti, per primo, Sargent Shriver, uno dei cognati migliori di John Kennedy: uomo di diplomazia, di filantropia, di intelligenza politica, e di ideali. Democratico.
Quando, nel 1966, il presidente Lyndon Johnson (successore di Kennedy) sceglieva, col consenso di Shriver, un nuovo chairman per quella forma di volontariato statale, Jack Hood (lui si abbreviava così) era una novità: un repubblicano, educatamente pacifista, e disponibile, in ogni occasione, a mettere in piedi azioni ed istituzioni bipartisan. Arrivare, come ha fatto in pochi anni, alla cifra massima di 15 mila volontari nel mondo, è stato in quegli anni anche un gran colpo d’immagine: ci volevano intelligenza, un po’ di scoutismo, e soprattutto persone preparate. Anche nel tatto: arrivando con poche forze, un po’ di dollari, molte idee, in Paesi, e fra popoli, per cui gli Stati Uniti restavano o il simbolo dell’invadenza, oppure, al minimo, un protettore poco amato ma sfruttabile.
Jack Hood era appassionato, in particolare, dei latino-americani: parlava benissimo il castigliano, aveva già messo in piedi centri culturali a Panama e in Bolivia, e in alcuni di quei Paesi sarebbe diventato ambasciatore. Si sarebbe dimesso dalla presidenza dei suoi “Corps” con Richard Nixon: irritato perché il presidente –repubblicano come lui – si occupava troppo di Cina e di politica petrolifera, relegando il Sud America a pura terra di controllo politico, o militare.
La “pace” di quei volontari aveva comunque portato – negli anni di Hook – questo tipo di cose: costruzione di ponti, l’installazione del primo sistema informatico all’Università di Kuala Lumpur, la formazione dell’Orchestra nazionale boliviana (con un direttore di nome Gerald Brown), l’organizzazione di corsi di insegnamento ai ciechi fatto da insegnanti ciechi, e di guardiacaccia in Etiopia.
Un’attività a tutto campo, un po’ rinascimentale. Jack è stato popolarissimo, in particolare, in Colombia, Panama, Senegal, Mali, Mauritania. E l’attività dei “Peace Corps” continua, anche se poco citata, o incomprensibilmente fuori moda. Fra i suoi impegni più costanti, Jack Hook ha mantenuto quello in difesa delle foreste pluviali, e a favore del controllo delle nascite. Su quest’ultimo punto era difficilmente citabile nell’ultimo scontro presidenziale. E se anche il repubblicano Romney ci ha per un attimo pensato, era ovvio che non l’avrebbe fatto.
George McGovern
(21 luglio 1922 – 21 ottobre 2012)
Uno dei più democratici senatori del partito democratico, e della storia americana. Un candidato alla presidenza battuto, da Richard Nixon, nel 1972. E che, per questo, non ha dovuto sperimentare marce indietro o compromessi sui principi. E, per questo, un precursore senza potere di Barack Hussein Obama. Ma con un primo piano nobile e costante. Anzi, storico, fino alla fine dei suoi 90 anni. Conclusi nell’allegra città di Sioux Falls, South Dakota. Dove viveva, e dove andava a ritemprarsi negli anni più accesi delle sue battaglie: come deputato e poi senatore del Congresso. Quasi 25 anni di vita politica, dal 1956 al 1980.
Che cosa vuol dire essere “uno dei più democratici nel partito democratico?”. Più o meno, assomigliare a George McGovern, con qualche aggiornamento, e qualche conquista storica andata in porto. Lo spirito di Obama nel difendere l’assistenza sanitaria gratuita a 30 milioni di americani (per ora), assomiglia a quello di McGovern, quando dichiarava la sua massima passione per «il benessere quotidiano della nazione». In particolare, degli americani depressi. Come quegli agricoltori del suo Stato – il South Dakota – che lui aveva rappresentato nel 1956, che erano diventati democratici perché il New Deal li aveva tirati fuori dalla soglia della miseria, e che ancora stentavano a fare il passo in più oltre la soglia del benessere.
Il marchio del senatore McGovern ha inciso come qualcosa di opposto al “sogno americano”, venduto in genere come un promettente luogo comune, ma, nei fatti, abitato da pochi: le sue visioni erano programmi reali, piattaforme, e quindi lotte. La battaglia antisegregazionista con la conquista dei diritti civili, la fuoruscita dal Vietnam, l’organizzazione del programma “Food for Peace” durante la presidenza Kennedy, il diritto alla sanità pubblica.
Più democratico del suo partito, e della maggioranza dei congressmen dei due partiti, McGovern ha dato la traccia a Barack Obama mezzo secolo fa in questi termini: «I nostri partiti pensano che i bambini poveri debbano avere la stessa educazione di quelli cresciuti in famiglie ricche, o benestanti. Noi democratici, e io in particolare, crediamo che ciascuno debba pagare le tasse misurate sul proprio reddito, e, in questo modo, che tutti possano accedere all’assistenza sanitaria».
Nessun sogno, ma una questione di diritti, doveri, e anche di spese e bilancio dello Stato. D’altronde, in quegli anni – Sessanta e Settanta – i combattenti tipo McGovern usavano il termine “dream” come qualcosa di molto reale, anche se maledettamente difficile da far accettare: l’ “I have a dream” di Martin Luther King ha fatto vedere com’era giusto che fosse l’America, e come sarebbe diventata. Ha disegnato in anticipo Barack Obama alla Casa Bianca. Come King, l’iperdemocratico McGovern aveva il dono dell’esperienza sul terreno: sapeva, per esempio, che cos’era la guerra, e quanto gli ideali, e gli interessi, che potevano muoverla fossero variabili e di natura diversissima. Il senatore McGovern che, alle convention, al Congresso, e nei comizi itineranti, denunciava l’intervento tout court in Vietnam (e non solo la sua escalation), era stato un pilota decorato di B 24 durante la guerra, e, in particolare, sul cielo della Germania.
Con un articolo sul Washington Post, nel 2008, avrebbe chiesto l’impeachment per George W. Bush, e per Dick Cheney che, da anni, stavano facendo la guerra in Iraq. Nel 1972, la Convention democratica di Miami che lo eleggeva candidato-avversario di Richard Nixon, aveva fatto una delle più rare, battagliere, ed estreme scelte di una presidenziale americana: Nixon lo denunciava come un «sinistrorso, un traditore dell’esercito e del libero mercato, e un totale estraneo al pensiero americano».
Frasi da precursore – un po’ più selvaggio – di Mitt Romney, e dei suoi recentissimi appelli alla forza dell’America, e al primato del “private market”. McGovern avrebbe perso, ma dopo essersi presentato per quello che realmente era: «Sono figlio di un pastore metodista. Sono stato, volontario, in guerra. Mi sono sposato, per sempre, con la stessa donna. Sono quello che gli americani amano essere: una persona normale, sana, e con degli ideali».
Dopo la sconfitta, molti del suo partito gli hanno appiccicato la definizione di “liberal loser”. In parte reale, per quegli anni, ma anche ingiusta, guardando oltre. Se non altro perché un suo diretto successore, con quattro anni di presidenza, si è ben preparato a non essere, fra pochi giorni, la stessa cosa.