Se ne sono andati (l’architetto che ha dato forma a Israele)

Se ne sono andati (l’architetto che ha dato forma a Israele)

David Resnick

(5 agosto 1924 – 4 novembre 2012)

Di Rio de Janeiro, poi israeliano. Architetto, “uno dei più celebri” d’Israele. A Rio, aveva fatto pratica nello studio di Oscar Niemeyer: “un genio e un rivoluzionario” avrebbe detto. Niemeyer ha oggi 105 anni. Resnick ne aveva 88. È sepolto a Gerusalemme, nel cimitero di Har Hamenuchot.

Gerusalemme è una città di infinite definizioni: la “Venezia di Dio” secondo il poeta Yehuda Amichai, oppure “il Vaticano che abbiamo qui”, secondo un’opinione veloce di un taxista arabo, qualche anno fa. Per Resnick, oltre ad essere un luogo di “nostalgia”, andava trattata anche “come una vergine”: senza costruire troppo in alto, rovinando il suo carattere “mistico”.

Non era religioso, era partito da un sionismo socialista, e, con la moglie Rachel, avrebbe fatto parte di quei giovani brasiliani che si trasferivano per costruire un nuovo Stato. In ogni senso. La definizione di “rivoluzionario” rivolta a Niemeyer, connotava un’affinità ideale, oltre che artistica, e tecnica. Niemeyer, fra i molti concetti scelti per dire qualcosa di sé, citava le “curve sensuali”, e poi “la curva dell’universo di Einstein”. Un’idea poetica e materialista.

Quelle curve, Resnick le ha elaborate in un suo modernismo particolare, e adatto a Israele: si trattava di creare una nuova lingua anche nel costruire. Nel Paese, e nella città – Tel Aviv – che era stata modellata da qualche maestro del Bauhaus. Alcuni dei più begli edifici israeliani spuntano da terra come delle apparizioni razionali: in architettura non è un ossimoro, e Resnick ha disegnato, in quella prospettiva, almeno due capolavori. La “Rabbi Dr. I. Goldstein Synagogue” (nella Hebrew University di Gerusalemme) è, insieme, una cupola planetaria, un oggetto cosmico, ma naturale in mezzo al verde. Non marziano.

Il Memoriale a John Kennedy (Yad Kennedy) ha la profondità di una pista di decollo, la forma di un auditorium, e una specie di fuga in avanti, come un luogo di memoria infinita. O universale. A Resnick, Israele deve anche gli edifici dell’Accademia nazionale delle Scienze, il campus della Hebrew University sul Monte Scopus, il padiglione per l’Expo canadese di Montréal del 1967.

Lo Yad Kennedy a Gerusalemme

Parlare di grande architettura, o di normali “costruzioni” in Israele oggi – in questi giorni – può risultare eccentrico. Basta capirsi almeno su pochi aspetti. Al di là della propaganda, quello non è solo il Paese del “muro” di separazione-sicurezza, o degli insediamenti ciclotimici. È, ed è stato, di base una società civile formata (emigrati, intellettuali, sindacati, partiti, architetti, artisti, medici, avvocati, operai, agricoltori, impiegati, eccetera) prima del disastro della Shoah.

La sicurezza – o l’esistenza – di tutto questo è materia contesa da quasi 70 anni. Per il momento, quello che è stato costruito (anche da Resnick) resta e dice qualcosa. Nella migliore delle ipotesi, si puo’immaginare che possa venire condiviso. Da tutti.

Cinque Tibetani

(novembre 2012)

Cinque persone che si sono date fuoco poco prima del congresso del partito comunista cinese: due fra loro, di 15 e16 anni. Suicidi politici, e di denuncia: chiedevano il ritorno del Dalai Lama, ma l’ordine del giorno – continuo, da oltre mezzo secolo – è l’etnocidio tibetano pianificato e perfezionato da Pechino.

Cinque persone che hanno bruciato il proprio “io” in nome del loro Paese e della sua personalità. Nel pensiero buddista, l’“io” non coincide con un’individualità compatta, ma è costituito da aggregati. Il quinto aggregato corrisponde al “pensare”, in senso lato alla coscienza (non in senso morale, ma oggettivo). 

Quindi, cinque tibetani che hanno sacrificato il loro quinto aggregato, insieme agli altri, naturalmente (il corpo, eccetera). Aggiungendo, arbitrariamente, un sesto aggregato, si potrebbe chiamarlo “quel che resta dell’io”: la sua eco, o la memoria di quegli aggregati. È chiaro come a Pechino se ne freghino da decine e decine di anni delle coscienze tibetane e dei loro roghi. 

Ma è altrettanto chiaro come la Cina interna sia, da decenni, una zona di crisi. Dove il Tibet, pur spostato a ovest, resta l’epicentro costantemente in fiamme. Una zona di crisi interna (stabile, ancorché repressa con ogni mezzo) deve fare continuamente i conti col quinto aggregato dei repressi: detto in parole semplici, la Cina, nei suoi vari regimi (Mao, Deng, e i loro attuali successori) non ce l’ha fatta a cancellare la personalità del Tibet e l’ “io” dei suoi abitanti. 

Non ce la fa neanche con i mezzi più prosaici del mercato e della tecnologia: vietando la vendita delle carte per ricaricare i cellulari, interrompendo le telecomunicazioni mobili, chiudendo centinaia di Internet point. Addirittura proibendo, in certe zone tibetane, l’erogazione della benzina: perché le persone non possano autoincendiarsi. A questo punto, l’ “io” compatto del regime cinese potrebbe fare qualche considerazione (che non farà). Una fra tutte: le resistenze buddiste, hanno dato, negli ultimi 60 anni, qualche frutto.

A Saigon, il primo monaco che si era dato fuoco in piazza (1963), ha fatto diventare la crisi interna sudvietnamita una questione mondiale. In Birmania, in questi anni, il buddismo di lotta (centinaia, o migliaia di vittime) ha scardinato il regime militare. E c’è da immaginare che, alla fine, la grande signora Aung San Suu Kyi diventerà premier del suo Paese.

La Cina è proverbialmente diversa: un pachiderma opulento, armato, seconda potenza mondiale, eccetera. Ma certi aggregati, anche quando si autoincendiano, aggregano. Come una surreale legge fisica di cui il Tibet è il laboratorio particolare. 
 

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