Cadono davvero le braccia nell’assistere impotenti ad una nuova crisi politica e all’apertura di una campagna elettorale che “ricopia” e “ricopierà” pedissequamente un mediocre copione sempre uguale da vent’anni a questa parte. Un Paese che invece di impossessarsi del futuro si ripiega, più incattivito, sul passato che non passa.
Tutta colpa di Berlusconi, certo: e inorridisce il fatto che a 76 anni si ripresenti sempre uguale, sempre più rifatto e sempre ancorato al riciclaggio da outlet di un sogno ammaccato e irrealizzabile. Festeggiano gli speculatori dei mercati internazionali e gongolano senza neppure il pudore di nasconderlo i molti pasdaran del giustizialismo (comici compresi) che sembravano aver perduto il lucroso mestiere su cui avevano bellamente campato.
La condanna a restare condizionati una volta di più dal Cavaliere è un supplizio che non merita il Paese reale, ma che alla lunga rassicura l’intero Palazzo (e le sue infinite propaggini corporative), ben acquattato nei suoi privilegi intoccabili, abituatissimo alla rissa dialettica, allo scontro “militare” e quindi una volta di più abilitato a procrastinare i cambiamenti, a rimandare “al tempo del mai” la sfida impegnativa e dolorosa del governo efficace di una complicata modernità.
Sarà controcorrente, visto che è tornato l’alibi dell’”Uomo Nero” su cui scaricare tutte le responsabilità del declino, della crisi finanziaria, del debito pubblico e dei mali antichi e nuovi del Paese: ma è possibile interrogarsi se esisteva un’altra strada, se si è perduta un’occasione storica, se la “colpa” dell’immobilismo politico e anche economico non abbia anche molti altri padri.
Diavolo d’un Berlusconi: tornando in campo, da puro “incubo cattivo”, dimostra di aver “vinto culturalmente” un’altra volta, perché costringe proprio tutti a misurarsi con la sua ingombrante presenza e a impedire che finalmente si riesca a “voltare pagina”, a consegnare alla storia la vicenda opaca e controversa della cosiddetta Seconda Repubblica.
C’è un antico proverbio della sapienza popolare che forse comunica più di ogni erudita analisi il significato dell’opportunità mancata. «Ponti d’oro – recita – al nemico che fugge…». Forse un anno fa, quando, nel tripudio di massa e senza neppure un voto di sfiducia, il Caimano lasciava Palazzo Chigi si poteva apprestare un percorso di pacificazione politico-culturale che sancisse, sotto l’usbergo del governo tecnico e l’autorevolezza del Colle, il passaggio definitivo a una fase nuova. Nella quale si potesse serenamente (e finalmente) “fare a meno” del protagonista dell’ultimo ventennio. Trovando un modo (e la creatività istituzionale certo non mancava e non manca) per favorire un’uscita dignitosa e un abbandono concordato dalla vita pubblica.
E forse è proprio mancata quella magnanimità che accompagna da sempre le vere svolte storiche e consente di guardare avanti e magari in uno spirito più condiviso di occuparsi del futuro. A suo modo e senza nulla rinnegare dei suoi valori costitutivi era questa la sensibilità con cui l’avventura del sindaco di Firenze proponeva di andare “oltre” e, con la logica fisiologica del ricambio generazionale, di occuparsi soltanto del domani.
Non è bastato, pur se ha trovato attenzione e interesse perfino nel tradizionale zoccolo duro del popolo di sinistra. Ma rimane purtroppo prevalente quella “sindrome di Piazzale Loreto” che manifesta in realtà la paura profonda di affrontare il nuovo e si rinchiude nell’ossessione della vendetta sul passato e nell’uccisione del “capro espiatorio”, per colpevole che sia.
Stretto in un angolo, nel bunker della sua Cancelleria, lo sconfitto si batterà fino alla fine. Anche perché qualche opportunità la ritrova per suonare il suo piffero sempre meno magico.
L’impoverimento sistematico di larga parte della popolazione, il sovraccarico fiscale, la patrimoniale sulla casa, l’aumento della disoccupazione (fino al sostanziale “smottamento dei ceti medi”, per usare l’espressione dell’ultimo rapporto Censis) offrono materia non effimera ad una linea alternativa verso un assetto politico che è apparso troppo spesso un duro “commissariamento” imposto dai vincoli europei. E troppo spesso, nel conflitto endemico tra realtà produttive e parassitarie, i tecnici “tassator cortesi” sono apparsi al sentire comune come i semplici emissari dello sceriffo di Nottingham.
Certo, a raccogliere il malessere e il rancore c’è da tempo Grillo e il suo grido distruttivo. Ma attenzione: un concorso di errori e di circostanze negative rischia di permettere all’invecchiato e bolso signore di Arcore di travestirsi con i panni inediti di un solitario e improbabile Robin Hood.