La commissione consultiva per la redazione di una proposta di attuazione nel Veneto degli articoli 116 e 118 della Costituzione ha recentemente presentato il risultato del suo lavoro. Tra le proposte formulate ve ne sono alcune che riguardano il lavoro e che partono da una base comune, data dall’idea che il denaro dei lavoratori deve essere, quanto più possibile, mantenuto nella disponibilità degli stessi lavoratori, e la Regione deve essere strumento a questo scopo. Da questi elementi nasce una riflessione: perché non utilizzare le risorse del Tfr per finanziare opere pubbliche necessarie al territorio, e non lasciarle finire nel calderone della copertura alla spesa corrente?
Negli ultimi anni il continuo e progressivo deteriorarsi delle finanze statali ha indotto un processo per cui il denaro dei lavoratori è progressivamente, in forme per lo più surrettizie, destinato – nei casi migliori – a supplire all’incapacità finanziaria dello Stato a garantire adeguate forme di sicurezza e protezione sociale e, negli altri casi – ed è certo l’evoluzione più preoccupante – a finanziare la spesa corrente dello Stato.
Se i lavoratori generano le risorse per alimentare la Cassa Integrazione, non dovrebbe accadere che quegli stessi lavoratori possano trovarsi a non poter godere delle disponibilità che essi hanno generato nel momento in cui a loro dovessero servire. Se gli assegni familiari derivano da denaro generato dai lavoratori, quello stesso denaro – e non molto e molto di meno, come oggi accade – deve ritornare ai lavoratori. Se, infine, il Trattamento di Fine Rapporto è una retribuzione – sia pure differita – del lavoratore, come tale deve essere trattata.
Il TFR, costituendo all’ incirca un tredicesimo della remunerazione annua dei lavoratori dipendenti, rappresenta un importo significativo sia nel complesso (venti miliardi di euro nei primi cinque anni di vita della riforma), sia per il singolo lavoratore. Come è noto, la riforma introdotta dal governo Prodi ha avuto come principale risultato tangibile quello di sottrarre alla disponibilità delle imprese con più di 50 dipendenti l’uso delle somme accantonate per il TFR dei dipendenti privandole di una importante e ricorrente fonte di finanziamento che sarebbe stata a maggior ragione preziosa, nell’interesse delle imprese e dei loro dipendenti, in questo periodo di crescenti tensioni finanziarie. L’idea che stava alla base della riforma era quella di creare un moderno e trasparente sistema di previdenza complementare che avrebbe visto in concorrenza tra loro la gestione pubblica dell’INPS e quella privata delle imprese di gestione del risparmio, cui i lavoratori potevano liberamente rivolgersi.
Non si sa se per inerzia, se per mancanza di informazione o per una percepita maggiore affidabilità della gestione pubblica, soltanto una esigua minoranza ha optato per la gestione privata e così, in assenza di una scelta esplicita del lavoratore, il denaro è finito all’INPS. Almeno nelle intenzioni dei riformatori, peraltro tradite già dalla prima applicazione, la gestione pubblica avrebbe dovuto utilizzare il denaro del TFR per finanziare investimenti e giammai la spesa corrente; inoltre, per qualsiasi erogazione, si sarebbe dovuto prevedere il rimborso e ciò proprio perché quei soldi erano dei lavoratori e ad essi dovevano tornare.
È però accaduto che in forma sempre più sfacciata (valga per tutti, il finanziamento dei lavori socialmente utili di Napoli e Palermo) si sia abdicato a questi due principi e il TFR sia divenuto un mezzo come un altro per puntellare il sempre più traballante bilancio dello Stato. Il denaro dei lavoratori affidato all’INPS viene remunerato all’1,5% annuo più il 75% del tasso di inflazione. Un pessimo affare per i lavoratori se si pone questa remunerazione a confronto con quanto lo Stato paga sul BTP Italia che remunera il creditore al 2,55% oltre all’intero tasso di inflazione a fronte di una durata di soli quattro anni.
Di fronte a questi numeri è parso doveroso chiedersi se si poteva fare qualcosa per tutelare i lavoratori garantendo una migliore remunerazione del loro risparmio (perché in effetti di questo si tratta); un utilizzo del denaro coerente con la stessa impostazione della riforma e – per quanto possibile – rispettoso delle più elementari regole di gestione del denaro altrui che, pur nel complessivo degrado generale della finanza statale, offrisse qualche certezza in più sulla disponibilità futura; ancor meglio: utilizzare quel denaro nell’interesse dei lavoratori – che quel denaro hanno prodotto – per generare investimenti, reddito e soprattutto lavoro.
La proposta è assai semplice e facilmente attuabile: si consenta una gestione regionale del TFR. Con questa sola modifica si potrebbe destinare questo denaro a finanziare le opere pubbliche e ad altri interventi di interesse regionale. Oramai, oltre ad una quasi insormontabile difficoltà di finanziamento dovuto al sempre più deteriorato merito di credito del Paese, se una Regione vuole finanziare un’opera pubblica deve ricorrere ai project e riconoscere una remunerazione del capitale stabilmente superiore al 10%: si pensi che cosa accadrebbe se la Regione potesse pagare ai lavoratori, ad esempio, il 7%: il TFR dei nostri lavoratori crescerebbe con una remunerazione doppia rispetto all’attuale e la Regione avrebbe una spesa per interessi di molto inferiore, che vorrebbe dire meno imposte e minori costi per i servizi.
La proposta prevede anche la possibilità di utilizzare il denaro per anticipare, nel rispetto dei vincoli, il pagamento alle imprese creditrici degli enti pubblici. Ad esempio, enormi possibilità si aprirebbero per un programma di social housing collegato alla gestione delle sofferenze bancarie che meriterebbe un’illustrazione apposita che lo spazio qui non consente. Tutti utilizzi che avrebbero in comune, da un lato, il rispetto del denaro del lavoratore: sia remunerandolo al meglio, sia garantendone un utilizzo produttivo ed immediatamente verificabile dai diretti interessati; dall’altro lato, un utilizzo che “muove” l’economia regionale con investimenti che significano, subito, più lavoro e, nel più lungo termine, maggiore competitività del sistema, maggior qualità ed economia nella gestione dei servizi e quindi, anche in questa forma indiretta, una migliore remunerazione per i lavoratori.
Per le Regioni, rese esangui dal continuo ed indiscriminato taglio dei trasferimenti statali, si verrebbe a creare uno strumento importantissimo per una politica economica regionale. Lo Stato – se facesse davvero quel che dovrebbe – non ci rimetterebbe nulla perché a quei soldi che resterebbero sul territorio corrisponderebbe il venire meno di un debito uguale e contrario dello Stato verso i lavoratori. Questo in teoria, in pratica sappiamo che quei soldi servono per finanziare a tassi fuori mercato una spesa fuori controllo. È proprio a questa pratica scorretta e pericolosa che si vuole proporre un’alternativa.
Tratto da un articolo del Corriere Veneto di Massimo Malvestio