The Guardian e Washington Post abbandonano Facebook

The Guardian e Washington Post abbandonano Facebook

Il 22 settembre 2011 Facebook ha rilasciato la prima versione della Timeline per la prima sessione di testing sugli utenti. The Guardian e Washington Post si sono schierati tra i primissimi partner del social network, figurando tra i brand strategici autorizzati a pubblicare le loro applicazioni già nel settembre 2011; i loro prodotti sono apparsi il 17 gennaio 2012 nel catalogo delle prime 60 realizzazioni per il nuovo protocollo OpenGraph. Martin Belam ha coordinato lo sviluppo dell’app del Guardian, e riferisce di aver lavorato nella sede di Facebook per comprendere le logiche di funzionamento e di esperienza dell’utente che avrebbero governato la Timeline, quando questo dispositivo non era ancora stato annunciato da Zuckerberg al pubblico.

Il patto tra il social network e le testate era chiaro: da un lato Facebook avrebbe guadagnato contenuti interessanti da iniettare nel flusso delle condivisioni dei suoi utenti – dall’altra parte i giornali avrebbero trovato accesso ad un serbatoio di lettori potenziali che difficilmente avrebbero potuto raggiungere con gli strumenti del marketing convenzionale. Anche per le applicazioni della Timeline si parla di «download», con un prestito dal dizionario dei dispositivi mobili, dove invece occorre davvero scaricare il software.

Nel contesto di Facebook l’utente accetta di registrarsi ai servizi di una piattaforma software concedendole alcuni privilegi di lettura (e in caso di distrazione, anche di scrittura) sui dati del suo account, e riceve in cambio l’accesso alle pagine e ai servizi dell’app. La distrazione dell’utente è auspicata e incentivata dal meccanismo di registrazione: infatti quando l’utente decide di restringere le condizioni di condivisione dei contenuti cui accede si perde l’effetto «frictionless» dell’app, le cui virtù sono il movente essenziale per la sua realizzazione.

Nel caso delle testate giornalistiche l’incantesimo di questo artificio consiste nel trasformare il clic su un articolo in un Like, senza che il lettore si impegni a condividerlo intenzionalmente. Basta che l’utente consulti un contenuto della testata perché la struttura frictionless dell’app produca la segnalazione della sua lettura sulla Timeline; come capita con i Like, gli amici dell’utente troveranno un post con il link all’articolo sulla loro bacheca.

La conseguenza di questo meccanismo è un incremento delle condivisioni che supera in media di dieci volte la viralizzazione degli articoli raggiunta con le normali dinamiche di diffusione sul social network. The Guardian dichiarava nel novembre 2011 che dopo solo un mese dalla pubblicazione dell’app i download avevano superato i 4 milioni di unità, producendo per il giornale 1 milione di pagine viste in più al giorno. Il pubblico dei nuovi lettori era composto per oltre il 50% da giovani sotto i 24 anni, con una prospettiva di fidelizzazione di lungo corso. A novembre 2011 l’app del Washington Post veniva frequentata da 3,5 milioni di utenti al mese, l’83% dei quali aveva meno di 35 anni.

Tra il 12 e il 15 dicembre però entrambe le testate hanno dichiarato di ritenere conclusa la loro esperienza delle app frictionless. Dopo aver conquistato successi così importanti dal punto di vista del reclutamento di nuovi lettori, la scelta di abbandonare l’app richiede una spiegazione. The Guardian vuole liberare l’accesso degli utenti alle news dalle regole dell’algoritmo EdgeRank che governa la distribuzione delle notifiche sulle bacheche di Facebook. Il software che amministra il social network tende a privilegiare i contenuti che guadagnano il maggior successo in termini di clic.

Da un lato questa procedura finisce per promuovere gli articoli più popolari, senza alcun riguardo né per la qualità della produzione, né per la focalità degli argomenti rispetto alle direttive strategiche del piano editoriale della testata; dall’altro lato i principi di funzionamento dell’algoritmo tendono a rinchiudere i lettori nella «filter bubble» che li espone solo alle informazioni in cui l’utente e la sua cerchia di amici vorrebbero trovare la descrizione del mondo nella sua complessità.

Una testata che sottopone ai suoi interlocutori solo le storie che vorrebbero sentirsi raccontare come rappresentazione della realtà si sottrae al compito etico e politico di contribuire a formare la coscienza critica dei lettori. Ingram nella sua riflessione su GigaOm ha evidenziato questo nodo come motivazione essenziale della decisione del Guardian; in Italia Luca De Biase ha ripreso il filo della stessa discussione. Il responsabile dei progetti digitali del Washington Post, Vijay Ravindran, ha posto l’accento nelle sue dichiarazioni a Mashable sul tema della privacy.

I requisiti di successo delle app frictionless infatti hanno fatto discutere fin da subito per la loro indifferenza nei confronti della riservatezza dei dati degli utenti. Nel momento in cui un lettore sottoscrive la registrazione, non viene invitato a notare che il form pre-seleziona l’opzione meno attenta alla tutela della privacy, e che dispone il Sistema a divulgare pubblicamente tutti i clic compiuti dall’utente.

Questa soluzione naturalmente incentiva la viralizzazione, e ha permesso a The Guardian di raggiungere i 6 milioni di utenti unici attivi al mese durante il periodo di massimo successo dell’operazione, nell’aprile 2012. Tuttavia le polemiche sulla disinvoltura con cui le testate che sviluppano app frictionless ignorano le buone maniere della privacy, hanno danneggiato almeno in parte l’immagine di The Guardian e Washington Post – e in questo momento la loro decisione ha cominciato a metterle al riparo dalle critiche da cui sono state bersagliate.

Il rigetto della filter bubble e il rispetto per la privacy dei lettori meno accorti (la UE ha formulato alcune direttive per tutelare i cittadini che ritiene meno preparati in merito, e tra questi annovera anzitutto quella porzione di pubblico più giovane che è stato intercettato dalle app dei giornali) sono le motivazioni di fondo che appaiono nelle dichiarazioni esplicite di The Guardian e Washington Post.

Occorre però anche mettere in luce che il pessimo trend finanziario di Facebook dopo la quotazione ha modificato il rapporto idilliaco che il social network aveva stretto con i suoi partner. Il numero di condivisioni veicolate dalla piattaforma ha continuato a diminuire in relazione alla necessità di Facebook di aumentare le vendite di pubblicità connesse con la visibilità dei post. Le sponsored stories e i promoted post sono i dispositivi attraverso i quali il social network incrementa la visibilità dei contenuti: l’utente paga affinché i suoi post siano visti da un numero maggiore di destinatari rispetto a quelli previsti da EdgeRank.

Per esibire numeri più soddisfacenti nelle vendite pubblicitarie, l’algoritmo è stato modificato in modo da ridurre la visibilità spontanea dei post. Secondo AppData comunque, gli utenti unici attivi al mese per l’app delGuardian durante l’ultimo mese (metà novembre 2012 – metà dicembre 2012) sarebbero stati ancora 2 milioni e mezzo, con più di 200 mila utenti attivi al giorno; per il Washington Post sarebbero stati 350 mila al mese, 20 mila al giorno.

Dopo aver intercettato nuovi segmenti di pubblico, The Guardian e Washington Post si sono chiesti come monetizzare l’ampliamento di lettori che sono entrati nella loro sfera di influenza. Le app sono state un momento della digital-first strategy per The Guardian, e uno degli sviluppi del WaPoLabs per il Washington Post: in entrambi i casi si tratta di un esperimento che deve condurre all’elaborazione di un modello di business per un nuovo giornalismo capace di sopravvivere e prosperare in un mondo avvolto dalla Rete.

The Guardian sostiene di voler includere nelle pagine del giornale on-line le funzioni di condivisione sociale, permettendo ai lettori di dichiarare il loro parere favorevole o contrario alla news direttamente sulle pagine del Guardian, per poi condividere in seconda battuta l’opinione su Facebook. Washington Post ha creato invece un sito ad hoc per le funzioni di curation e di social reading, annettendo le funzioni che in precedenza erano erogate tramite il social network. In entrambi i casi la crescita del volume di lettori si converte in un incremento di pagine viste, i cui proventi pubblicitari e la profilazione degli utenti vengono acquisiti dalle testate senza la mediazione di Facebook.

Washington Post e The Guardian sono giustamente preoccupati di elaborare un modello di business sostenibile, e sono passati dalla raccolta di nuovi utenti alla loro monetizzazione. Nei giorni scorsi Washington Post ha anche annunciato l’intenzione di passare ad un modello freemium di accesso alle notizie on-line nel corso del 2013, seguendo l’esempio del New York Times: dopo un certo numero di pezzi gratis al mese, verrà chiesto ai lettori di pagare un abbonamento per la consultazione degli altri articoli; l’intervento non riguarda in modo esplicito la piattaforma di social reading.

L’esperienza condotta su Facebook, oltre alla crescita del numero di lettori, ha lasciato un’istruzione di fondo nel modello da seguire per il futuro: strutturare le notizie in modo da porre la profilazione dei lettori e la conoscenza in tempo reale dei loro interessi sia come fondamento, sia come obiettivo, degli strumenti di erogazione delle news. 

*Originariamente apparso come post nel suo blog su Linkiesta “Google e gli altri”

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter