Il 7 gennaio il tribunale di Firenze ha dichiarato il fallimento della Richard Ginori 1735 Spa, la storica manifattura di porcellane. Un’altra fabbrica che chiude, altri operai in cassa integrazione. Ma stavolta al senso di preoccupazione e frustrazione per le conseguenze economiche e sociali della crisi (venerdì 18 si è tenuta a Sesto Fiorentino una grande fiaccolata aperta dallo striscione “La Richard Ginori deve vivere”), si è aggiunta una sorta di lutto personale. Perché un servizio, o almeno qualche piatto o qualche tazzina, della Richard Ginori tutti ce lo abbiamo in casa. E, come i cocci dei reperti archeologi, nel loro piccolo raccontano la nostra storia. Li abbiamo comprati quando abbiamo messo su casa, ce li hanno regalati per le nozze, ma nella maggior parte dei casi li abbiamo ereditati dalla mamma o dalla nonna. Qualche pezzo è passato di generazione in generazione, come un tesoro di famiglia, alla portata di tutti.
Per tutti i giorni usiamo piatti qualsiasi, che costano poco, comprati all’Ikea o nei grandi magazzini, ma per le feste tiriamo fuori il servizio buono, quello della Richard Ginori. Lo teniamo, invece che sotto terra come il vasellame archeologico, negli scaffali alti della cucina o della sala e lo tiriamo giù solo nelle grandi occasioni per non romperlo. Invece che in lavastoviglie, laviamo i piatti a mano, ma quando li rimettiamo a posto, inevitabile, inesorabile, avviene l’incidente, e almeno uno ci scivola di mano e va in mille pezzi. Al dispiacere succede la speranza perché la Richard Ginori offre un servizio d’assistenza fantastico, di quelli d’una volta: in uno dei suoi negozi o dei casalinghi che tengono il marchio si può ordinare il pezzo rotto se è ancora in produzione o se è rimasto nei depositi. Adesso che la fabbrica è fallita non è più possibile recuperare niente.
Il piatto come ‘eredità d’affetti’ (per dirla con Foscolo), certo suona un po’ enfatico, fa sorridere. Ma il discorso sulla Richard Ginori non finisce qui, la sua storia racconta d’arte, di sociologia, di sviluppo imprenditoriale. Le sue decorazioni e materiali cambiano negli anni e documentano la moda, lo stile, le tecnologie del periodo in cui è stato prodotto, il gusto personale, le possibilità economiche del cliente. Ce n’era per tutti i gusti e di tutti i prezzi. In tavola ce l’avevano tutti e quelli che non ce l’avevano l’avrebbero voluto.
Era stato un aristocratico a costruire la prima manifattura. Nel 1735 il marchese Carlo Ginori fa costruire nella sua tenuta di Doccia, vicino a Sesto Fiorentino, un rudimentale forno per produrre la porcellana, che era considerata un materiale prezioso, quasi alchemico, fin dai tempi in cui Marco Polo ne aveva portato il segreto dalla Cina. Il re di Sassonia prima, il Granducato di Toscana poi, fanno costruire fabbriche per imbandire le loro tavole e quelle dei principi. Loro emulo, entra in gioco il marchese Ginori che continua e supera l’insigne tradizione. Poi nel 1896 la svolta, con la fusione con la grande fabbrica di Giulio Richard. Il geniale imprenditore milanese introduce moltissime innovazioni meccaniche nei laboratori e potenzia la decalcomania litografica per ridurre le forti spese della decorazione a mano.
Vengono costruiti nuovi forni, nuovi fabbricati e viene ampliata la produzione degli isolatori termici per far fronte alla crescente richiesta del mercato. Siamo nella Belle Époque, si impone anche un nuovo stile che stupisca e soddisfi la nuova borghesia. Accanto alle forme barocche e neoclassiche, ai disegni con delicati fiori, scene bucoliche e mitologiche della tradizione, si creano nuovi modelli allungati, capricciosi, decorati nel nuovo stile venuto da Vienna: il Liberty. È un trionfo. Richard acquisisce nuove manifatture, a Pisa, a Mondovì, a Napoli, a Vado dove si produce il grés. Copre tutto il mercato nazionale. Partecipa a tutte le mostre internazionali, da Parigi a Venezia e vince quasi sempre.
Accanto alla produzione alta, la Richard Ginori apre anche al mercato popolare, con terraglie e ceramiche. Dal ’23 al ’38 ne assume la direzione artistica Giò Ponti che crea autentici capolavori, richiesti da tutta la raffinata borghesia internazionale. Negli anni ’60 la Richard Ginori si mette a produrre anche sanitari per bagno: il marchio diventa ancora più familiare. A Milano, lungo il Naviglio, proprio davanti alla chiesa di San Cristoforo, ci sono ancora gli storici capannoni dove aveva cominciato la sua avventura imprenditoriale Giulio Richard. La fabbrica era stata chiusa nel ’70, per colpa – si diceva – di Sindona. Faceva tristezza vederla andare in rovina, abbandonata. Poi, più o meno una decina dopo, alcune società immobiliari avevano cominciato a ristrutturarla e l’avevano trasformata in eleganti loft. Speculazione edilizia o riconversione, bonifica urbana, o un po’ l’una e un po’ l’altra.
Comunque la fabbrica di Sesto Fiorentino continuava a produrre vecchi e nuovi servizi, sempre bellissimi, sempre molto richiesti. Era anche stato costruito un magnifico museo e una Scuola d’Arte per formare i giovani alle tecniche tradizionali. Le cose sono andate bene fino al ’70, quando è diventata una controllata del gruppo Sindona, che nel ’73 la cede alla Liquigas di Raffaele Ursini, che a sua volta la passa alla Sai di Salvatore Ligresti. Nel 2006 un breve, disastroso passaggio alla Bormioli, che vorrebbe utilizzare lo storico marchio per prodotti di bassa qualità, adatti alle catene della grande distribuzione. Infine, nel 2007, il gruppo Ginori passa alla Starfin di Roberto Villa, che proprio nell’area occupata dalla fabbrica di Sesto Fiorentino aveva un progetto edilizio per un valore di 30 milioni di euro e oggi dichiara il fallimento.