Fu guardando sua figlia giocare che le arrivò l’intuizione. La piccola Barbara, mentre maneggiava le sue bamboline di pezza – notò la madre Ruth – inscenava, nella sua fantasia, storie e situazioni “da grandi”. Non storie da bambini, o coetanei. I suoi giocattoli replicavano quello che vedevano i suoi occhi, cioè scene da vita adulta. Fu l’illuminazione.
Ruth Handler, a quel momento, aveva già una storia particolare. Era nata, decima figlia, da una famiglia di immigrati ebrei polacchi negli Stati Uniti, i Moskowicz. Il padre Jacob era un fabbro e aveva lasciato la Polonia per evitare il servizio militare nell’esercito russo. Ruth nacque il 4 novembre del 1916 a Denver. A causa di una malattia che aveva colpito la madre, appena nata, venne mandata a vivere dalla sorella maggiore Sarah, che gestiva una drogheria. Fu lì che Ruth, appena fu cresciuta abbastanza, cominciò a lavorare. E dimostrò subito che preferiva stare in negozio piuttosto che andare a scuola e, cosa strana se si guarda poi al suo futuro, piuttosto che giocare.
Intrecciò fin da giovane (aveva 16 anni) una relazione, vista con diffidenza dalla famiglia, con Isidore Elliot Handler, detto Izzy. I due si incontrarono in una festa di B’nai B’rith. Tre anni dopo, nel 1935, Ruth lasciò Denver per Los Angeles, dove lavorò come segretaria per la Paramount Studios. Anche Izzy Handler la seguì, per studiare all’Art Center School of Design. Dopo poco, su insistenza della famiglia, la coppia torna a Denver per sposarsi. La vita di coppia è un tassello fondamentale nella sua vita: è con il marito che Ruth comincia le sue prime iniziative imprenditoriali. Ed è grazie alla sua prima figlia, Barbara Joyce, che arriverà la svolta nella sua carriera.
Gli studi di Izzy aprono un orizzonte da scoprire: disegnare mobili e accessori da nuovi materiali, che, all’epoca, erano la lucite e il plexiglass. Per aiutarlo, Ruth lascia il lavoro alla Paramount Studios e fondano, insieme, la loro prima società: Elzac (nome che deriva da una fusione di “Elliot”, secondo nome del marito, e “Zachary”, che era il terzo socio finanziatore). Producono fermalibri e candelabri. Con il tempo, la società allarga la produzione anche ad articoli da regalo e bigiotteria, e Ruth prende in mano tutto il lato promozionale: addirittura, riesce a strappare un contratto con la Douglas Airways, per una linea di modellini di aeroplani che sarebbero stati dati in dono di Natale per i viaggiatori. Un’intuizione che le vale due milioni di dollari. Gli Handler decidono di lasciare la società a Zachary, e mettersi ancora in proprio. Comincia così una nuova avventura: la Mattel. Con un nuovo socio, Harold “Matt” Matson (ancora, il nome della società è la fusione di Matt con Elliot), producono cornici per le fotografie, dal materiale scartato dalla Elzac. Dal legno rimasto, Elliot pensa anche di disegnare mobili in miniatura per arredare le case delle bambole. Un business che rendeva molto di più delle cornici. È in questo momento che la Mattel entra nel mondo dei giocattoli.
Gli inizi non furono semplici: Izzy partoriva idee, Ruth si occupava del lato dei diritti e della pubblicità. La prima buona trovata fu un ukulele giocattolo (Uke-a-doodle), del 1947. poi, un fucile e una music box. La produzione toccava a Izzy, ma le vere grandi idee provenivano dalla moglie. Non era solo intelligenza. Ma anche coraggio. Fu Ruth a insistere di investire sulla televisione, nel 1955, tutto il valore della Mattel (500mila dollari) in pubblicità da inserire nel Mickey Mouse Club, un programma per bambini che aveva appena cominciato. La trovata fu rivoluzionaria: le pubblicità parlavano ai bambini, e non agli adulti. Erano i ragazzi che diventavano, per la prima volta, dei veri consumatori. Fino a quel momento, i giocattoli erano venduti solo in alcuni periodi dell’anno (Natale, soprattutto) e attraverso cataloghi e mostre. Ma il cambiamento era nell’aria da tempo, con l’industria del giocattolo che stava crescendo. Con la pubblicità della Mattel in tv il passo era compiuto. Inoltre, anche la scommessa fu vinta: le vendite della Mattel decollarono.
Proprio in quel periodo, la piccola Barbara, ormai quasi teenager, aveva cambiato il suo modo di giocare con le bambole. Metteva in scena dinamiche da vita adulta, immaginandosi le bambole come personaggi cresciuti, ambientando le varie situazioni nel futuro. Ruth lo notò, e capì che qualcosa doveva cambiare anche nel mondo delle bambole. Aveva ragione, ma i suoi due soci, compreso suo marito, non erano convinti. Ci vollero mesi perché, anche grazie a un viaggio in Germania, dove videro in un negozio una bambola giocattolo per adulti (era la Bild Lilli, una figura voluttuosa non pensata per i bambini), le cose cambiarono. Su modello della bambola tedesca, Ruth elaborò una figura nuova. Aveva proporzioni esagerate, e irreali. Ma sopratutto, aveva il seno e altre caratteristiche sensuali che fino ad allora erano impensabili. In più, era disegnata per stare sui tacchi. Era il 1959, e nasceva la Barbie, la bambola più famosa del mondo, e della storia.
La prima pubblicità televisiva di Barbie
Alla sua presentazione, fu un fiasco: i fornitori, diffidenti, non la degnarono di attenzione. Ma, al tempo stesso, si rivelò un successo per le giovani acquirenti. La prima richiesta, nelle lettere a Babbo Natale del 1960, era la “Barbie doll”. Soltanto nel primo anno, la Mattel riuscì a vendere 350mila bambole Barbie. Anche stavolta, fu il fiuto di Ruth ad avere ragione. «Mi sembrava ovvio: ogni ragazzina voleva una bambola per proiettare l’idea di sé nel futuro». E per questo, «era impossibile che non avesse il seno», aveva detto in una intervista al New York Times nel 1977. E ciò che la Barbie faceva era proprio quello: dava un’idea di futuro alle ragazzine.
Ben presto arrivarono gli accessori, e anche un compagno, Ken Carson E delle avventure, ambientate nella California dei surfer. La vita di Barbie (cioè Barbara Millicent Roberts) diventava un riflesso dell’alta società, con auto da sogno e abiti alla moda. Con divorzi, amanti e nuovi incontri. Anche la casa, trasposizione moderna del castello del principe azzurro, conteneva accessori di ogni genere. «Una volta che hai afferrato un cliente, dopo la bambola, comprerà anche tutto il resto», diceva Elliot Handler. Un sistema di marketing che diventava, insieme, un nuovo modo per educare all’american style. Non stupisce, allora, che con il tempo la bambola sarà icona di un modo di vivere e pensare adottato in tante parti del mondo e rifiutato in altrettante.
Barbie sarà accusata di indurre aspettative sbagliate, di creare un immaginario troppo legato al consumismo americano. Anche le sue proporzioni sono giudicate innaturali. Di sicuro, la sua fama è indiscutibile. Tanto che, come personaggio, diventa oggetto di una battaglia di Greenpeace ed entra in film e cartoni animati.
Un’immagine del film Toy Story 3, dove compaiono Barbie e Ken
La campagna Greenpeace contro la deforestazione compiuta dalla Mattel
Per quanto riguarda gli Handler, gli affari andarono bene, finché le vite di Ruth ed Elliot Handler non vennero raggiunte da scandali finanziari. Diverse indagini, negli anni ’70, portarono alla luce un sistema di frodi contabili che obbligò i due coniugi e fondatori a lasciare la Mattel. Nel frattempo, nel 1970, a Ruth era stato diagnosticato un tumore al seno. Fu operata in tempo, ma l’asportazione di uno dei suoi seni lasciò segni evidenti, che le protesi dell’epoca non riuscivano ad attenuare. Anche qui, ci mise il naso: «Queste cose sono fatte da uomini, che non devono indossarle» e ci lavorò su. Insieme a Peyton Massey, un artigiano, elaborò una linea di seni artificiali, modellati con sapone e silicone. Il prodotto si chiamò “Nearly me” (quasi me) e fondò una società apposta, la Ruthton. Andò contro i tabù dell’epoca, e divenne una sostenitrice della cura al cancro al seno, andando in televisione e chiedendo controlli preventivi. «Non lo faccio per i soldi. Ma più per ricostruire una mia autostima, e quella degli altri». Dopo lo scandalo, ne aveva bisogno. Commentando il suo passaggio dalla Barbie alle protesi, amava dire che aveva costruito una carriera «dal seno, e ne ho fatta un’altra per il seno».