Nagisa Ōshima
(31 marzo 1932 – 15 gennaio 2013)
Giapponese, di Kyoto: regista di 54 film, artista prescelto, un tempo, dalla censura mondiale, e preciso nel suo obiettivo basilare: «In ogni mio film desidero forzare i giapponesi a guardarsi allo specchio».
È andato oltre: in molti suoi film, lo specchio è adatto a milioni di persone. All’umanità, detto senza retorica. Il Giappone, quello della disfatta postbellica, è un pretesto naturale, un clima dove nuotare spontaneamente, ma Ōshima, giapponese in tutto (attori, luoghi, soggetti, sociologia), non è, alla fine, né troppo nazionale, né troppo geografico.
Un set è fatto, in genere, di una trama, di un paesaggio, o di più paesaggi, di un racconto, ma soprattutto di quello che il regista e i recitanti dicono, o trasmettono, o amalgamano. In diretta, o in senso traslato. C’è apertamente Shakespeare in molto Kurosawa, e molto canone occidentale nel Bernardo Bertolucci “cinese” che ricostruisce la storia dell’ultimo imperatore. Ōshima – ricordato soprattutto per l’impegno politico, la denuncia sociale, la libertà morale – è, neanche tanto in fondo, un lirico. Un lirico-tragico, a volte. Come sono immagini ed espressioni artistiche molto diverse: certe figure di Hokusai, tutto il teatro di Bertolt Brecht, e, nel cinema, il surrealismo sbeffeggiante di Marco Ferreri.
Come Brecht, e come Ferreri, Ōshima maneggia le pulsioni, le crudeltà, o semplicemente le forme del vivere e della storia, tirandone fuori la poesia (intesa come un dato di realtà, o come un naturale bene rifugio, anche nelle circostanze più crude). La scova, quando c’è, e dà il suo tono.
Il Moloch dei suoi film, quel bellissimo Ecco l’impero dei sensi del 1976, tuttora degradato a “cult dell’erotismo”, è un sogno fatto film, tratto dall’esistenza, anche immaginata per un attimo, di milioni di uomini e donne. Non tanto l’amore, o il sesso estremo fino all’evirazione (quello è il plot), quanto l’immaginare, o sognare, il sorpasso del limite. Anche in quelle forme.
La censura del mondo (in Giappone, in America, in Italia) gli ha dato addosso, in quegli anni dell’immediato post Sessantotto, per mettere alla sbarra un reato d’opinione visionaria ma possibile, più che un film giudicato porno. Quando poi entra nella storia, quella tragica del Giappone in guerra, Ōshima elabora un’altra parafrasi lirica. In Furyo, del 1983, un campo di concentramento giapponese – situazione mortifera, estrema – diventa il luogo di una possibilità “da sogno”: un amore omo fra due nemici.
Il film è centrato anche dalla presenza di David Bowie e dalla musica (del tutto consona, aspra e lirica) di Sakamoto. Ma anche lì, non c’entra (o superficialmente) la contiguità amore-morte: c’entrano le fantasie che un ufficiale, o anche un soldato, del Commonwealth prigioniero, potrebbe aver avuto nei confronti di un pendant giapponese, e viceversa. E non c’è insulto alla realtà: per la storia, le vittime restano quelle e i persecutori quegli altri.
Ma il passaggio simbolico, o poetico, tratto dalla vita, e quindi da tutto quello che si immagina vivendo, è il cuore del film e anche di tutto Ōshima. Le sue biografie, le analisi critiche, l’elenco commentato dei suoi film sono a disposizione. Lo saranno sempre di più, perché è stato un regista unico. Anche nella chiarezza. «Non c’è niente di osceno in quello che ho espresso. È osceno quello che si nasconde». I sogni, in genere, è meglio non nasconderli. Per non parlare della poesia, e dei simboli.
Il Ga Mantse
(1938 – 2012)
Il re dello Stato di Ga, nel Ghana: a sud, nella grande regione di Accra, la capitale. Si chiamava Nii Tackie Tawiah III, dinastia regnante dalla prima metà dell’Ottocento: una bella faccia, con gli occhiali, un’espressione da persona responsabile. E più che rispettata. Uno dei sovrani d’Africa: sono ancora un buon numero, da occidente al Sud Africa, regnano e amministrano nei loro territori storici, e non sono un contropotere istituzionale dei rispettivi Stati postcoloniali (Repubbliche, per lo più dittatoriali e militari, con storie diffuse di guerre civili e colpi di Stato). Sono in genere nicchie e immagini di pace civile, e gli Stati li usano come alti funzionari interni dotati di un carisma popolare. La Storia gioca a loro decoro, ma si sono aggiornati anche con qualità molto contemporanee.
Gli studi e i diplomi, per esempio. Nii Tackie aveva un PhD in diritto pubblico, una laurea in legge, e un master in economia. Ottenuti a Chicago e a New York. Soprattutto nei viaggi, ma ogni tanto anche fra i suoi, a casa sua, usava un nome da Terzo Stato: dottor Joe Blankson (il vecchio re di Svezia, Gustavo VI Adolfo, nei suoi giri archeologici all’estero si faceva chiamare, meno borghesemente, conte di Gripsholm).
Era stato acclamato re l’11 giugno 2006: successore di Nii Amugi II (già molto amato, e devoto metodista) con qualche contestazione da parte di un ramo dei Teiko Tsuru We, cioè la famiglia reale. E così, in sei anni, la popolazione Ga (i “Gas”, in inglese) si sono visti proteggere e indirizzare da un bravissimo economista- giurista che faceva, di diritto, il sovrano.
Ha messo in piedi una corporation – la Ga Development – per lo sviluppo di quella regione: “speedy”, veloce, con notevole capacità di trovare finanziamenti. Privati, in particolare. Da considerare che, prima di essere intronato, Nii Tackie-Blankson aveva fatto parte della Commissione statale per lo sviluppo del Paese. Il Ghana ha uno dei redditi pro capite più alti dell’Africa, e dispone di un mazzo raro di ricchezze: diamanti, manganese, bauxite, petrolio. Un’economia in crescita abbastanza impressionante: nelle statistiche mondiali.
È anche il Paese di Kofi Annan, ed è stata la prima ex colonia d’Africa a ottenere l’indipendenza, dagli inglesi. Il Ga Mantse , nel suo programma, in quello che ha fatto, e anche in quel quadro sociale più promettente, insisteva sul fatto di “non restare indietro”. E sulla formazione dei bambini: aiutarli a “impegnarsi, a procedere, a strutturarsi sulle loro gambe”. Anche fuori dai rifugi tradizionali: l’appartenenza di clan, la famiglia, la carriera in caserma. Mica male come re “interno”.
Le foto del suo palazzo sono sorprendenti: uno specie di cascinale rettangolare, bianco, stirato in orizzontale da una fila di otto finestre, e piantato a terra da un colonnato senza pretese. Nel prato prospiciente, un mezzo muretto sbrecciato. Un misto di “noblesse-faiblesse oblige”. Molto più che dignitosa. È morto in un’ospedale di Londra, per un tumore progredito in poco tempo. È successo qualche giorno prima del debutto del 2013, ma la notizia è stata data a gennaio inoltrato.