Se ne sono andati (anche l’eroe della crisi di Teheran)

Se ne sono andati (anche l’eroe della crisi di Teheran)

John Sheardown

(1924 – 30 dicembre 2012)

«Thank you Canada». Più di trent’anni fa, con manifesti di questo tipo, in diverse città degli Stati Uniti, i cittadini americani ringraziavano il Paese vicino. Non era mai successo prima. Non era neanche mai capitato che un’intera ambasciata degli Stati Uniti, con chi ci lavorava, venisse occupata e tenuta in ostaggio per quasi due anni. Era successo a Teheran, il 4 novembre 1979, nel neonato Iran khomeinista: un colpo di propaganda e di violenza antiamericana da film. Sarebbe stato un soggetto storico più che raccontato: libri, documentari, interviste, fiction varie, storie della trattativa, analisi degli aspetti geopolitici del fattaccio, eccetera. Nei racconti, è sempre un po’ mancata la presenza dell’eroe. Gli ostaggi americani non lo sono stati, perché erano le vittime.

L’eroe, eccolo qua, morto a 88 anni, ad Ottawa: il signor Sheardown, canadese dell’Ontario, già funzionario dell’ “Immigration Office”, nell’ambasciata del suo Paese a Teheran, in quella chiusura d’anno 1979. L’impresa vale una sintesi, immediata come un bassorilievo: gli ostaggi americani erano 50, ma sei di loro sarebbero sfuggiti alla cattura. Restando nascosti, e protetti, per 79 giorni, sparsi in diverse case private della capitale iraniana. Si chiamavano Robert Anders, Mark Lijek e Cora Amburn Lijek, Lee Schatz, Joseph e Kathleen Stafford. Quattro uomini, due donne, due coppie.

Avevano avuto la fortuna di lavorare al consolato, e non all’ambasciata. Il cui assalto è diventato una scena cult, quasi alla pari con la presa del Palazzo d’Inverno, nel 1917 (tutt’altro che epica, facilissima): gli studenti, e i pasdaran energumenizzati dall’ideologia, le barbe, la folla, l’ambasciata quasi sommersa. E poi la cattura, in fila, di tutto quel gruppo e la sua trasformazione in carne da ricatto politico. Dei sei sfuggiti, perché decentrati, Anders è amico del signor Sheardown, dell’ambasciata canadese. Che si muove, insieme all’ambasciatore Ken Taylor. Come? Nel classico, e rischioso, modo di chi cerca di salvare dei perseguitati: nascondendoli. Anzi, organizzando una mappa diversificata di nascondigli.

In breve, e grazie soprattutto all’estro di Sheardown, i sei riescono a vivere per oltre due mesi, a casa dello stesso Sheardown e di sua moglie, in quella dell’ambasciatore Taylor, al pianterreno dell’ambasciata di Svezia, o nell’appartamento della consolessa svedese Cecilia Lithander. Ogni tanto, tutti insieme, a volte staccati. Da considerare che i loro nomi sono noti agli iraniani: sono dei ricercati. L’operazione in codice si chiama “Canadian Caper”.

Il seguito coincide con un’altra necessità: farli uscire dall’Iran. Qui, Sheardown – d’accordo con l’ambasciatore e il suo governo – fa quello che altri eroi, anche più soli di lui, hanno fatto in tempi molto feroci: rilascia passaporti e visti. Ci vuole anche il visto d’uscita iraniano, e nell’impresa si mette anche di mezzo la Cia, attraverso un suo emissario Tony Mendez. Alla fine ce la si fa, e il gruppo dei sei arriva in America nel gennaio 1980.

I particolari del loro salvataggio sono raccontati (con qualche cambiamento) nel film “Argo”: da vedere, gira in questi giorni, con un certo successo, in diverse sale. Il ruolo della Cia è stato secretato per un bel po’ di tempo, ma non ha grande importanza. La prima parte, quella di Sheardown, tiene una scena molto ampia, come un modello che, in circostanze diverse, si ripete: i visti del console portoghese Da Sousa Mendes agli ebrei in fuga durante la guerra, l’operazione dello stesso tipo di Giorgio Perlasca a Budapest nel 1944, la protezione ai perseguitati argentini nel 1976, del console italiano a Buenos Aires Calamai.

È l’intelligenza, e la morale, del bene, più che la sua “banalità”. Un buon promemoria di debutto d’anno. Attraverso il signor Sheardown, canadese dell’Ontario, già molto attivo a Teheran.  

Rita Levi Montalcini

Qualche osservazione, marginale. Senza ripetere l’età, simbolicamente immortale.

Qualche colpo d’occhio, per quello che l’immagine vuol dire e può trasmettere della sostanza. In questo caso, tutte e due irripetibili. Anche se è un peccato che Andy Warhol non sia vivo: un multiplo di Rita Levi Montalcini degli ultimi tempi sarebbe stato un’opera d’arte più che contemporanea. Ma, in quello stesso territorio, così com’era, citava altre immagini di altri tempi: un personaggio di Marivaux, o una figura di Pietro Longhi, e di tutta la pittura del Settecento inoltrato.

L’insieme della sua fisionomia, originale in ogni dettaglio, terrà una scena immediata, nella memoria: il contrario della scienziata esplicitamente dimessa – tipo Madame Curie – un’affermazione femminile al massimo dell’intelligenza estetica. Non era solo quella permanente bianco-azzurra, o i vestiti di Capucci: c’era un’affermazione di libertà proporzionale a un’eleganza meditata, affermata, e naturale.

Nella sostanza civile (in senso lato, di rappresentanza), Rita Levi Montalcini fa parte di un gruppo di donne europee, a cui i rispettivi Paesi possono riferirsi simbolicamente e nel loro insieme: Simone Weil in Francia, la regina Sofia di Spagna, la Signora Thatcher ed Elisabetta per gli inglesi. Ha avuto l’estro di passaggi non scontati: è tornata in Italia, dopo i decenni americani, per restarci e agire su più versanti di un umanesimo aggiornato.

Altri Premi Nobel – già italiani ed esiliati dal razzismo fascista – hanno scelto, con ogni personale ragione, di restare americani, negli Stati Uniti. Come Freud, era un’ebrea “atea” (lo ha dichiarato), ma senza che questo alimentasse lo snobismo della distanza dalle sue radici. Contrariamente agli immortali che non hanno problemi di puntualità (altrimenti non sarebbero immortali), è stata puntuale nella Storia: quando veniva, antichissima, in Senato, a votare per il governo che le assomigliava, o quando si muoveva, finché ha potuto farlo, per le cause aveva scelto. Alla fine, estetica e sostanza a specchio.
Mai, o molto poco, viste in Italia, prima di lei. 

Henry Lloyd Strzelecki

(1925 – 26 dicembre 2012)

Pioniere tessile, definito «visionario». Nato a Brodnica, Polonia, poi soldato del battaglione polacco che combatteva con gli inglesi, in Italia, durante la guerra. Poi cittadino britannico, e sempre velista appassionato. Ha trasformato l’immagine dell’eroe sportivo. Proteggendolo, e lanciandolo come un giavellotto, un disco, o una vela da regata.

Lo sportivo dei tempi antichi correva o gareggiava nudo, come fanno vedere i vasi greci con le figure rossonere. Il signor Strzelecki, vissuto millenni dopo quell’epoca di libertà classica, lo ha stilizzato vestendolo: con un marchio, il suo (Henri Lloyd), e con fibre e accessori pionieristici che lo avrebbero reso più libero. Perché più sicuro.

Il signor Strzelecki, espatriato a Manchester dalla Polonia neocomunista del dopoguerra, avrebbe studiato in quella capitale del tessile britannico tutti gli aggiornamenti del settore. Il velcro, inventato in Svizzera dal signor de Mestral nel 1941: cioè quel sistema di chiusura peloso e adesivo che fa un “crack” secco quando si stacca. Il nylon, e le zip, che in Italia si chiamavano cerniere lampo, o, direttamente, “lampo”. Invenzioni del secolo, già sviluppatissime nel 1963, quando Strzelecki, ormai esperto e britannizzato – fondava la sua azienda.

Col suo nome e un cognome inglese aggiunto: Henri Lloyd. Immediatamente memorizzabile, un marchio normale, non volgarmente stilistico. Sarebbe diventata un agile mastodonte del settore: nei Paesi del Commonwealth, in Medio Oriente, e in Europa, naturalmente. Vestiva tutti gli sport, e in particolare la vela e il golf.

L’intuizione, applicata, del suo fondatore: usare, per primo, il velcro, e nuove fibre, come il Bri-Nylon, messo al mondo nei primi anni Sessanta. L’eroe sportivo si abituava, così, a un tipo di immagine diversa: più neotecnologica, meno olimpica. Senza contare la maggior forza nella sfida agli elementi. Per esempio, la “waterproof integrity” di una giacca a vento messa insieme con quelle fibre e blindata col velcro, mentre l’oceano prende a ceffoni un natante e il suo Ulisse di turno durante una traversata.

Il più celebre, nel 1966, è stato, senza contestazioni, Sir Francis Chichester, primo circumnavigatore solitario del globo: interamente vestito (e protetto) Henry Lloyd. Quasi superfluo citare tutti gli onori con cui il signor Strzelecki è stato insignito: l’Ordine dell’Impero britannico, e due Queen’Awards for Export Achievements (dato che Henri Lloyd continua a tenere il campo mondiale delle vendite, e restando –rara avis- inglese). Nel rimpiangere il fondatore, Ben Ainslie, già campione olimpico nella vela, ha detto: “Great man and much loved RIP”. Dove quell’acronimo non si riferiva a una zip avveniristica, ma al gentile “Requiescat in pace”.

E un poeta potrebbe citarlo associandolo, in armonico contrasto, a uno di quei cavalieri polacchi che, vestiti solo di un’uniforme e di una spada, andavano alla carica di mitragliatrici e carri armati. 

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