Se ne sono andati (Mariangela Melato e non solo)

Se ne sono andati (Mariangela Melato e non solo)

Mariangela Melato

(19 settembre 1941 – 11 gennaio 2013)

Originale d’acchito. La faccia triangolare da soggetto cubista, o anche pop, che diventava, di profilo, una greca da tragedia classica. La voce scura e mai impostata: da attrice di Milano (la sua città) ma non dialettale, che aveva protetto il suo timbro originario. Senza gli allargamenti delle vocali (della “e”, in particolare), come insegnano ai filodrammatici. Mariangela Melato non è stata, alla lettera, “filodrammatica”: anche per questo è stata una delle più brave.

Forse la più brava, e senz’altro una delle più intelligenti. Ha saputo essere tutto, o tutte, o molti caratteri, nel teatro e nel cinema, travasando nella sua recitazione dei tempi suoi. Naturali ed eccentrici. Due esempi: la Melato nella commedia all’italiana, e la Melato nella tragedia antica.

Nel primo genere, Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, di Lina Wertmuller: un successo italiano, europeo, americano. Il film è del 1974, quando in Italia gli anni politici e sociali sono già di piombo. Il canovaccio è quello di una commedia, ma ha ambizioni sociologiche. Si racconta di un caso estivo a suo modo eccitante: di una sciura milanese ossigenata, in barca, e in bikini (una riccastra senza pedigree, come ce ne sono a mazzi, d’estate e inverno, a Santa Margherita), che tratta da cane il marinaio siciliano (un Giancarlo Giannini al massimo di quel ruolo), finché non si ritrova naufragata con lui, che si rifà, domandola, anche sessualmente.

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In quel pastiche dove lei diventa un Robinson Crusoe “milanottero” incredibilmente schiavizzato dal suo Venerdì “terrone”, la Melato immette, del suo, una sottilissima dose di satira. Anzi di autosatira, facendo ridondare uno dei caratteri dominanti della sua città. È lei che tiene la scena come una Baccante nata a Porta Venezia, ma improvvisamente destrutturata da un destino vacanziero. E la satira, volutamente eccessiva di Mariangela ha qualcosa di aristofaneo: la polis lombarda, la città del fare, e dell’ordinare, è rivoltata come un guanto di ciniglia, o semplicemente sbeffeggiata.

Al contrario – e siamo al secondo genere, quello classico – quando la Melato, in teatro, è diventata Fedra, o Medea, parlava una lingua contemporanea. Senza violenze moderniste allo spirito di quelle tragedie e di quei ruoli, si faceva ascoltare come un’interprete dei nostri tempi. Nessun filodrammatismo, ma tempi suoi, contemporanei, che ci riguardano. Non era un’attrice di Lina Wertmuller o di Monicelli prestata a Euripide: era Euripide che con lei, si rifaceva vivo, in diretta. Dentro al suo teatro, ma fuori canone.

È morta giovane, a 71 anni (oggi non sono molti): amata e rimpianta per questi caratteri e molti altri. Tutti suoi – l’umanità, l’impegno, l’empatia – che raramente riguardano il set o la scena. 

Klemens von Klemperer

(2 novembre 1916 – 23 dicembre 2012)

Di Berlino, poi americano, nel Massachussets, dove è morto a 96 anni. Storico, ha scritto, in particolare del periodo nazista: “Nazi Era”, come ha ricordato il New York Times. In inglese l’espressione è più forte e più drammatica. Adatta a quello che Klemperer ha raccontato.

Di quell’epoca mortifera, Klemperer è stato una vittima scampata, e poi rifugiata, dal 1938, in America: insieme ad altri studiosi tedeschi che, come lui, avrebbero ricostruito e reinterpretato i presupposti e gli sviluppi del disastro tedesco. Insieme a lui, negli Stati Uniti, quella materia è stata scandagliata, da angolazioni diverse, da Fritz Stern, George Mosse, Hajo Holborn, Peter Gay.

Si chiamavano, e si chiamano, “German and European studies”. Nel caso di Klemperer, il legame fra Germania e Europa ha avuto un senso ancora più preciso: il suo libro più celebre (fra i sei che ha scritto) racconta infatti della resistenza ad Hitler, del complotto fallito del 1944, e dei contatti esterni che gli oppositori tedeschi avevano cercato di mettere in piedi. Fra il 1938 e il 1945. Il titolo completo è German Resistance Against Hitler. The Search for Allied Abroad.

Il nucleo è importante, con un valore non limitato a quel periodo e a quella lotta: ci si domanda quanto “la coscienza del mondo allargato” risponda alle richieste di chi è oppresso e resiste. La storia, andata a male, dei congiurati del 1944 è una specie di prototipo, anche se i suoi caratteri sono stati particolari. Su questi, Klemperer si è concentrato: era un gruppo di militari patrizi (von Stauffenberg, von Moltke), di diplomatici, di religiosi (il pastore Bonhoeffer), già in rete con gli Alleati. Avevano idee non omogenee sul futuro della Germania: i militari, in particolare, non volevano né immaginavano un Paese post-nazista occupato dagli angloamericani, e tanto meno dai sovietici.

Resistenti nazionalisti, a cui è sfuggita un’evidenza di fatto (la vittoria alleata dentro il territorio tedesco), e le sue naturali conseguenze (l’occupazione dell’ex Terzo Reich, e la sua divisione). Senza contare il dato più importante: la libertà per i tedeschi poteva arrivare solo dalla disfatta militare. Tutto questo Klemperer ha raccontato, partendo anche dalla particolarità della sua storia: Gustav, il nonno, era un banchiere ebreo convertito al protestantesimo. Il padre Herbert era presidente di un’azienda che produceva locomotive, siluri, e sottomarini per l’esercito. La madre era austriaca, e Klemens studente manifestava a Vienna contro Hitler nel 1938, a ridosso dell’Anschluss.

Nell’esilio, la famiglia riusciva a salvare la proprietà, già dislocata negli Stati Uniti. In Germania, diversi parenti loro sarebbero stati deportati e uccisi ad Auschwitz. Un altro Klemperer, Victor (non della stessa famiglia), già professore di letteratura francese, sarebbe rimasto a Berlino per tutto il tempo della guerra: i suoi Diari sono un documento unico di come un ebreo viveva la vita quotidiana nel disastro nazista e tedesco. Il suo racconto è in qualche modo speculare a quello dei resistenti che cercavano i contatti “fuori”, cioè al libro di Klemens. Rileggendo di quella resistenza, di quei complotti, e anche della fortuna di Hitler nello sfuggire, ogni volta, alla resa dei conti fra tedeschi, si possono fare pensieri diversi. Uno, in particolare: la “coscienza del mondo” non si è gran che mossa negli ultimi 60 anni. O molto lentamente.