La passione dei numeri nell’Italia che raccontiamo

L'Editoriale

“L’Italia è un Paese che ha sempre avuto scarsissima memoria di sé e del suo passato. In difficoltà nel sapere dove andare…”

Il presidente dell’Istat, Enrico Giovannini, è uno scienziato dei numeri capace di metterli in fila, dargli un’anima e intrecciarli facendo dimenticare la fredda solitudine che spesso li circonda. «I numeri sono caldi e vivi perchè ti servono a capire oggi per il domani. Ti servono a non perdere il senso di dove siamo e dove vogliamo andare», quindi a far parlare una storia d’impresa, imbastire un dibattito culturale, colorare un fatto politico, un dettaglio di cronaca, illuminare un’inchiesta finanziaria o un reportage di società, cioè il pane quotidiano di noi qui a Linkiesta. Tanto più oggi che usciamo da una tornata elettorale convulsa, che consegna a un paese snervato da cinque anni di crisi epocale un parlamento ingovernabile, dove proprio i numeri non ci sono o sono talmente dispersi da rendere impossibile il formarsi di un qualsiasi governo all’altezza delle sfide che abbiamo davanti: tornare a crescere, fare le riforme a lungo rinviate, sburocratizzare, semplificare e investire nella scuola per dare qualche chance ai nostri giovani e mettere un po’ di fiducia e ottimismo nel serbatoio del paese. Mentre un popolo nuovo, l’M5S, pigramente etichettato sotto le insegne della protesta, sta per entrare nei palazzi del potere senza che nessuno o quasi, giornali in testa, sappia davvero chi siano e cosa rappresentino.

Pensando a un editoriale per presentarmi ai lettori, come si fa in questi casi quando si assume la direzione di un giornale, ho immaginato fosse più utile farlo dialogando con il presidente dell’Istat la cui visione di società e del paese che siamo e che vorremmo essere, si avvicina all’idea di un giornalismo moderno, basato (anche) sui numeri come strumento per farsi capire meglio, che vorrebbe incarnare sempre di più Linkiesta che mi accingo a dirigere.

Fateci caso: in pochi mesi siamo passati dall’essere un paese totalmente a-scientifico, dove i numeri sono opinioni e ognuno nel dibattito pubblico, sui giornali o nei talk show, si porta i propri, ad un profluvio di dati, cifre, statistiche e fact checking forsennati, diventati all’improvviso una sorta di sport nazionale. La campagna elettorale appena chiusa è stata un pezzo di questo impazzimento. «C’è stata una overdose di numeri perchè dietro c’è una domanda di verità emersa potentemente a partire dalla crisi dell’estate 2011», ragiona Giovannini. «Con la recessione l’attenzione ai dati è molto cresciuta. Gli italiani vogliono saperne di più, vogliono informarsi meglio. Noi lo vediamo dai clic sul nostro sito e dalla quantità di articoli che rilanciano le nostre statistiche. Tutti gli indicatori di output dell’Istat nell’ultimo biennio sono letteralmente esplosi, segno che la società italiana si sta muovendo verso una maggiore cultura dei numeri come strumento per conoscere e quindi decidere», direbbe Luigi Einaudi. Eppure non si può dire che questo approccio abbia cambiato la campagna elettorale, o il modo in cui il paese sta dibattendo sulle proposte politiche, sull’economia e sul proprio futuro in Europa. «Per fare questo serve prima aumentarne l’educazione tra media e giornali. Solo così possiamo sensibilizzare ed abituare cittadini e lettori. Tutti devono poter partecipare al dibattito usando i dati. Questa è la grande rivoluzione che abbiamo davanti» e che, attraverso Linkiesta, vorremmo contribuire ad accelerare.

Spesso non lo si crede ma i numeri non sono segni aridi per iniziati, tutt’altro. Danno fascino e una visione più chiara alla nostra vita, illuminandone aspetti decisivi e scelte che compiamo. Un giornalismo di qualità e di approfondimento come quello che Linkiesta punta a consolidare deve necessariamente attingerne quando parla di politica, economica, finanza, società e persino cultura, sport e hobby.

Lo si capisce sempre dal ragionamento di Giovannini. I numeri entrano dappertutto, senza forzature. «Guardate qui», dice mettendo il dito su una tabella. «Questo è l’andamento della popolazione italiana dal 1861 al 2011. Siamo arrivati quasi a 60 milioni, in 150 anni è quasi triplicata. Quello invece è l’andamento del numero delle famiglie, aumentate nello stesso arco di tempo di oltre cinque volte. Perchè questa differenza? Perchè il numero medio di persone per nucleo familiare si è ridotto non solo per la tendenza a fare meno figli, ma anche per la deriva delle famiglie a rompersi più facilmente». E allora quando uno prende il reddito pro capite dell’Italia, e vede che nell’ultimo decennio è diminuito di quasi il 5% in termini reali, e poi scopre che nel frattempo il numero di famiglie è molto cresciuto per via delle rotture, «questo vuol dire che non si mettono più le cose insieme per pagare gli affitti, dunque ognuno deve pagarsene uno per conto proprio. Il risultato è che le spese fisse delle famiglie in questi anni sono molto aumentate, producendo meno libertà di spendere quel che ci resta in tasca una volta pagate le tante spese fisse». E questo determina un senso di insoddisfazione e una forte ricaduta sui consumi interni che si sommano alla povertà in forte aumento in Italia (6 punti in più tra inizio 2011 e inizio 2012, dal 18 al 24%), come non era mai successo. Ecco un piccolo esempio di come da una serie di numeri apparentemente freddi e avulsi escano fuori ingredienti imprescindibili per costruire una inchiesta di straordinaria attualità, popolare e trasversale che, troppo spesso, il giornalismo ha smesso di raccontare.

Insomma conoscere per deliberare e decidere, come diceva Einaudi, ma conoscere anche per raccontare, fare cioè al meglio il mestiere del giornalista. Linkiesta che vorrei fare insieme a tutti voi lettori, redattori, blogger e collaboratori si avvicina a questo approccio. Usare i numeri per non sbagliare il bordo di una storia, per prenderla dal verso giusto, con rigore e sensibilità insieme.

In fondo non c’è niente di più carnale. Se guardiamo alle grandi questioni aperte nel nostro paese e appena fuori si vedrà che ci sono sempre dei numeri a fare la differenza. Usarli bene o non usarli cambia parecchio il senso del nostro mestiere. Se stiamo sull’emergenza lavoro, un conto è fermarsi ai 3 milioni di disoccupati ufficiali, un altra rendersi conto che aggiungendosi i cosiddetti giovani «Neet», gli scoraggiati, gli inoccupati e i sottocupati, l’area del disagio arriva a toccare 8 milioni di italiani. Capite che siamo su due pianeti diversi in termini di politiche da mettere in campo ma anche di narrazione giornalistica da costruire. «Mi ha colpito molto che Jean-Claude Juncker, lasciando il suo ruolo di presidente dell’Eurogruppo, abbia parlato di reddito minimo di cittadinanza, quasi la rottura di un tabù…», prosegue Giovannini. «Se addirittura un personaggio che si occupava di deficit e debito parla di questa opzione, significa che in Europa, dove i disoccupati sono ormai 24 milioni, vale il detto ‘Houston, abbiamo un problema…».

Lo stesso succede sulle pensioni. «Questo è l’indice di vecchiaia in Italia negli ultimi 150 anni, ossia la quota di sessantacinquenni per 100 minori di 15 anni», continua il presidente dell’Istat. «Buona notizia, viviamo molto di più; cattiva notizia, adesso o più avanti chi dovrà lavorare, si dovrà far carico di molte più persone perchè c’è un problema serissimo di squilibrio tra giovani e anziani, uno squilibrio intergenerazionale, che non ha nulla a che fare con l’equilibrio finanziario del sistema pensionistico (corretto con la riforma Fornero, ndr) bensì col fatto che abbiamo un problema strutturale di un Paese che non fa figli, che quindi ha poche generazioni giovani, e quelle poche hanno un’educazione che, in paragone, nessuna generazione in precedenza aveva avuto».

E noi che facciamo? «Li teniamo in panchina, e li lasciamo invecchiare senza un’attività che li faccia crescere». Domanda: come si fa a gestire una società democratica, che non cresce abbastanza per assorbire i posti di lavoro dei giovani? «Questo è un qualcosa che in Europa non era mai accaduto», chiosa Giovannini. Come vedete sono tutte sfide gigantesche, investono il senso ultimo del nostro vivere insieme, interrogano persino la filosofia politica forgiata negli ultimi tre secoli dal pensiero occidentale, eppure senza buttare un occhio sulle tabelle della demografia si rischia di discutere di problemi sbagliati, o comunque parziali, senza saperlo. Immaginate il danno fatto. Non solo informativo.

La verità è che senza i numeri non si può fare buona politica né buon giornalismo. Prendiamo ancora la quota degli stranieri in Italia, altro problema di cui si strumentalizza spesso senza sapere. «È vero – dice Giovannini – negli ultimi 30 anni è aumentata molto, ma il problema è che aumentata soprattutto nell’ultimo decennio (passando da 1,3 del 2001 a 4,5 milioni del 2011)». Se andiamo a guardare gli altri Paesi, «noi non abbiamo nulla di anomalo, l’unica anomalia è che questa crescita l’abbiamo fatta in breve tempo», modificando l’estetica di molti quartieri urbani e il paesaggio sociale della provincia italiana, mentre altri «hanno avuto più tempo per prepararsi, per trovare le strutture, anche di assistenza, per cambiare le norme, per accogliere questa popolazione straniera». Popolazione che «ci è indispensabile se vogliamo crescere economicamente, se vogliamo che qualcuno lavori e paghi le pensioni future, al di là degli aspetti umanitari». Ma questo si collega a sua volta al destino delle nostre scuole dove c’è un tasso di abbandono tra i più alti d’Europa: «Intorno al 20% (contro il 9% della media Ue), che tra gli stranieri sale addirittura al 40%». Bene. «Se vogliamo evitare che anche in Italia si riproducano tra qualche anno episodi da periferie londinesi o banlieu parigine, forse bisognerebbe investire nel capitale umano» ma anche, per decidere al meglio e raccontare efficacemente il nostro paese, voler leggere i numeri.

E si potrebbe continuare con la produttività, altra parolina magica dei nostri dibattiti. Sempre i dati Istat ci dicono che negli anni 90 e 2000 il sistema non ha sfruttato le nuove tecnologie per fare grande innovazione. «In molti casi ci siamo un po’ seduti, ci siamo seduti sugli allori, ci siamo seduti su quella ricchezza che la generazione precedente ha accumulato», perdendo 30 punti di competitività in 15 anni rispetto al benchmark tedesco. «Parlo anche del sistema delle imprese perchè la produttività si fa sul posto di lavoro, non in parlamento». E qui proprio i dati sconfessano la vulgata di comodo: «negli ultimi 20 anni il dividendo di Maastricht, cioè l’abbattimento del costo del debito non solo nel settore pubblico ma anche in quello privato, insieme a salari relativamente bassi, è stato sprecato spingendo ad una sotto capitalizzazione delle imprese, a fare pochi investimenti, a procrastinare la piaga dell’evasione fiscale consentendo a migliaia di imprese di sopravvivere senza dover investire in produttività.» Questo dalle serie storiche Istat lo si vede bene anche se alcuni imprenditori storcono il naso. «Certo che ci sono questi freni di sistema, le tasse, la burocrazia, il costo dell’energia, ma le imprese più efficienti hanno incrementato ugualmente export e occupazione.» Dunque non è impossibile fare impresa in Italia, «è più difficile ma non è impossibile.» Un’altra volta se si usassero i numeri, non si cadrebbe in questa trappola mediatica.

Numeri che centrano anche quando sembrerebbero non c’entrare. È questo che insegna il metodo Giovannini. Un giornale come Linkiesta al tempo dei social network dovrà saper mescolare linguaggi diversi attraverso codici digitali, infografiche interattive, percorsi multimediali, una produzione più industrializzata di approfondimenti in formato ebook e un mix di registri giornalistici. Un’altra volta numeri, dunque. E qui c’è la seconda sfida che ha davanti il nostro giornale. Costruire sempre più intorno alla sua vocazione all’approfondimento, all’autorevolezza delle battaglie culturali, ad una politica che sia sempre più policy e racconto intelligente di ciò che accade nel palazzo, una società che sappia intercettare le mutazioni dal basso, una finanza che scandagli il potere e un’economia attenta ai processi reali di imprese e territori, un palinsesto giornalistico che superi la sensazione di un prodotto cartaceo trasferito on line.

Come? Culturalizzando l’attualità e allargando lo spettro dei potenziali lettori dando spazio e aria al costume, alla cultura, allo sport, alla tecnologia, alla musica, al lifestyle intelligente e alla divulgazione scientifica. Immaginando un taglio particolare per il weekend. Valorizzando sempre di più la tribù dei blogger e la community nata intorno a LK. L’ambizione mia e dell’azienda, che ringrazio per la fiducia che mi ha accordato, scegliendomi, è di arrivare gradualmente a coprire questi campi per addizione, mai sottraendo o indebolendo la fisionomia e l’identità di testata. Cercherò di farlo insieme ad una redazione giovane e motivata, che ringrazio per avermi voluto all’unanimità e non vedo l’ora di guidare. Tutti insieme lavoreremo con tenacia, passione, rigore, fantasia e divertimento. Che resta il sale di questo mestiere. Abbiamo dalla nostra la bellezza dei numeri, la libertà di sperimentare e la speranza di contribuire a raccontare un paese e un mondo un po’ migliore. Si dice che le crisi siano l’occasione di grandi ripartenze. Noi ce la metteremo tutta. Con il vostro aiuto.

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