Chi è l’uomo più ricco della storia? Tutto è relativo, naturalmente: dipende da come si calcola la ricchezza. Marco Crasso, il più facoltoso dell’antica Roma, aveva una rendita annua pari al reddito di 32 mila cittadini romani. John D. Rockefeller, simbolo dell’opulenza americana degli anni Cinquanta, guadagnava quanto 116mila concittadini. Oggi l’uomo più ricco al mondo è il messicano Carlos Slim, re delle telecomunicazioni, che ha accumulato 70 miliardi di dollari e ha un reddito annuo pari a quello di 400mila messicani. È lui il primo in classifica nella storia dell’umanità.
Carlos Slim è il prototipo di una nuova razza di superricchi, proliferata negli ultimi decenni, che comprende tycoon dell’high tech come Bill Gates e Mark Zuckerberg, oligarchi russi come Roman Abramovich, e neomiliardari cinesi come il nuovo presidente Xi Jinping. Per descrivere le conseguenze della loro irresistibile ascesa, Chrystia Freeland, una giornalista della Reuters, ha scritto un libro che vale la pena di leggere: Plutocrats, The Rise of the New Global Superrich and the Fall of Everyone Else (editore: Penguin). Già il sottotitolo – L’ascesa dei nuovi super-ricchi globali e la caduta di tutti gli altri – esprime con chiarezza la tesi dell’autrice: la creazione di queste recenti e immense ricchezze è il segno di una crescente ineguaglianza sociale che sta impoverendo la classe media e cambiando i connotati della società. L’argomento non è nuovo. Ne avevamo già sentito parlare quando il movimento degli Indignados aveva invaso le piazze spagnole e i giovani di “Occupy Wall Street” avevano costruito la loro tendopoli a South Manhattan.
Ma Chrystia Freeland va oltre. Come giornalista del Financial Times, ha seguito i plutocrati per vent’anni nei luoghi dove i Creso del XXI secolo sono soliti incontrarsi (Davos, Dubai, le sale delle Ted Conferences, gli Hamptons, persino gli spalti di Wimbledon), ha visto crescere a dismisura le loro ricchezze e ha imparato a conoscerne attitudini e tic culturali. Nel suo nuovo libro disegna con precisione la nuova fase storica che stiamo vivendo e sottolinea i rischi che la crescente ineguaglianza sociale comporta.
Partiamo da alcuni numeri che focalizzano bene il problema. Secondo Credit Suisse, nel mondo ci sono 28 mila persone che hanno una ricchezza superiore a cento milioni di dollari: quasi la metà vive negli Stati Uniti, un quarto in Europa e un altro quarto nel resto del mondo. Nel 1970, negli Stati Uniti, l’uno per cento al top della ricchezza controllava il 10 % del pil, oggi il 33 per cento. Per capire la velocità con cui la ricchezza creata dalla società si trasferisca ai vertici della piramide basti osservare che tra il 2009 e il 2010 il pil americano è cresciuto del 2,3%, ma il reddito del 99% degli americani è cresciuto solo dello 0,2%, mentre quello dell’1% è andato su del 11,6%: sessanta volte di più. Trent’anni fa un amministratore delegato medio guadagnava circa 42 volte il lavoratore medio, oggi il rapporto è 380.
Ma il libro della Freeland non si concentra sull’1% dei più ricchi, bensì sullo 0,1%, la punta estrema della piramide, persone così ricche da esercitare un’influenza notevole non solo sulla politica, ma anche sul dibattito delle idee, e quindi sulla cultura collettiva. Quando parliamo dello 0,1%, negli Stati Uniti ci troviamo di fronte a un elenco di 16 mila famiglie. Nel 1980 lo 0,1% possedeva l’1% del pil nazionale; oggi ha conquistato il 5%. Da soli. Bill Gates e Warren Buffett (che insieme “valgono” circa 100 miliardi di dollari) hanno accumulato la ricchezza del 40% della popolazione meno abbiente, 120 milioni di americani.
Ci sarebbero altre mille statistiche da citare, e tutte direbbero una sola cosa: che negli ultimi vent’anni l’ineguaglianza economica è cresciuta a dismisura, la classe media si è progressivamente impoverita e la ricchezza si è spostata in modo incredibile verso il vertice della piramide. Le cause di questo cataclisma socio-economico sono essenzialmente due: la globalizzazione e l’innovazione tecnologica. Negli ultimi vent’anni alla globalizzazione del commercio e dei capitali si è aggiunta quella delle persone di talento. Fino a ieri la chiamavano negativamente “brain drain”, oggi si preferisce la più attraente “global brain circulation”, circolazione globale dei cervelli.
Molti hanno a lungo sottovalutato il potere delle grandi università internazionali nel generare questa élite di successo. Uno studioso (John Quiggin, University of Queensland) ha calcolato che i 27 mila studenti che frequentano il primo anno delle università della Ivy League (le otto più elitarie negli Stati Uniti) sono circa l’uno per cento degli studenti che frequentano lo stesso anno tutte le università. E quell’uno per cento di studenti ha un’enorme probabilità di diventare, domani, l’uno per cento dei più ricchi del paese. Si tratta di una tecnica straordinaria di riproduzione delle élite (economiche e culturali) che ricorda le vecchie aristocrazie.
Chi sono i plutocrati? Generalmente non sono figli di papà, ma persone che i soldi li hanno fatti da sé. Sono quasi tutti uomini e generalmente provengono dalle migliori università (le donne sono pochissime, e quasi sempre mogli o figlie). In questa élite internazionale compare una folta schiera di oligarchi russi o cinesi che hanno sfruttato abilmente i meccanismi protettivi del potere e talvolta solide reti di corruzione. Sono petrolieri, banchieri, finanzieri, spesso big della tecnologia. Come sempre, le statistiche più puntuali vengono dagli Stati Uniti: secondo Forbes, 840 dei 1.226 miliardari americani (classifica 2011) sono persone che si sono fatte da sé. Self-made men.
Certo, i nababbi ci sono sempre stati, e già nel 1924 Francis Scott Fitzgerald diceva: «Lasciate che vi dica qualcosa sui superricchi: sono diversi da me e da voi». Ma la globalizzazione e la rapidità del cambiamento hanno reso i nuovi nababbi ancora più diversi da noi, quasi una razza a parte che vive in una bolla internazionale al di sopra degli Stati. Nella nuova economia chi vince prende tutto. È il caso di Larry Page e Sergey Brin (Google), di Mark Zuckerberg (Facebook) e di Jeff Bezos (Amazon), ma gli esempi potrebbero essere centinaia. I nuovi superricchi lavorano sedici ore al giorno e, secondo Chrystia Freeland, sono convinti di meritare la loro ricchezza e spesso sostengono di avere troppo poco potere. L’autrice di Plutocrats li paragona agli aristocratici britannici che nel XIX e XX secolo si battevano contro la nascita della democrazia in nome della loro lungimiranza nel gestire i problemi della società. Spesso i nuovi plutocrati possiedono yacht da ottanta metri, ma il loro maggiore status symbol è una fondazione modello Bill Gates. Sognano un capitalismo filantropico dove le imposte sono virtualmente nulle e il welfare è gestito in modo razionale dalle loro fondazioni, ben più efficienti dello stato sprecone.
I plutocrati sono una comunità transnazionale. Persino in Africa, dice la Freeland, i banchieri (che magari hanno studiato alla Harvard Business School), hanno più cose in comune con i colleghi londinesi che incontrano a Davos che con i loro clienti locali. Le loro aziende non sono più localizzate, e i top manager sono pronti a muovere i quartier generali ovunque, dove più conviene.
Al di là dei problemi etici (che interessano poco i plutocrati), la crescente diseguaglianza comporta rischi. Oltre un certo limite, l’ineguaglianza è una minaccia alla crescita e alla stabilità economica. Se la classe media non ha più soldi da spendere, i meccanismi di creazione della ricchezza si inceppano. E infatti si va diffondendo l’idea (radicale) che l’uguaglianza sia un motore dello sviluppo. La Brookings Institutions (importante think tank democratico di Washington) ha appena pubblicato un libro (Inequality in America) lanciando l’allarme. Il patriarca dei capitalisti americani, Warren Buffett, alcuni mesi fa ha scritto un lungo articolo sul New York Times affermando testualmente: «La gang di cui faccio parte sta lasciando la classe media nella polvere». E lanciava un appello per aumentare le tasse ai ricchi.
C’è una soluzione in vista? Neanche per sogno, dice la Freeland. Le vecchie ricette non funzionano più in un mondo globalizzato con un tasso di cambiamento così rapido. I problemi sul tappeto sono completamente nuovi e non si possono risolvere (come un tempo) utilizzando la leva fiscale per ridistribuire il reddito, perché i superricchi si scansano e vanno altrove assieme ai loro capitali. L’economia e i plutocrati sono globali, gli stati nazione e i cittadini normali sono rimasti locali.
Che fare? La Freeland non offre ricette. Si limita a dire che c’è una lunga battaglia da combattere. Dopo la prima industrializzazione, a cavallo tra Ottocento e Novecento, le società occidentali vissero un momento di analoga diseguaglianza sociale. Per superare quella fase, dice la Freeland, ci vollero due guerre mondiali, la grande depressione, le rivoluzioni in Cina e Russia. Con estrema lentezza, per preservare il capitalismo dalla minaccia comunista, la società occidentale inventò il moderno welfare e una rete di istituzioni per regolare il capitalismo. Ma ci vollero decenni di lotte, di discussioni, di travagli politici e ideali.
Oggi siamo tornati a quel punto. Come fare per far funzionare questa economia per le persone comuni che oggi si stanno impoverendo e non trovano lavoro? Che fare per rimettere in moto la scala della mobilità sociale? La soluzione non sta certo all’interno dei singoli stati, ma nella creazione di nuove regole a livello internazionale. E qui il problema si fa ancora più serio. Perché a quel livello sono ancora una volta i plutocrati, e le loro università di élite, a generare idee e a produrre cultura. Ha ragione la Freeman: sarà un processo lungo e doloroso.