Guy Frederick Tozzoli
(12 febbraio 1922 – 2 febbraio 2013)
Alla metà degli anni Sessanta, a New York, il figlio di Silvio Tozzoli – un costruttore italiano emigrato nel New Jersey – si trovò a lavorare con l’architetto Minoru Yamasaki, nippoamericano di Seattle, e con Leslie Robertson, laureato a Berkeley in ingegneria civile. Tozzoli, molto ferrato in meccanica analitica e in fisica, doveva sovraintendere il lavoro, come direttore di una delle sezioni più importanti dell’autorità portuale della città: il World Trade Department. Trentacinque anni dopo, Tozzoli correva in macchina per un appuntamento nella parte sud di Manhattan. Ma si fermava di colpo all’imbocco dell’Holland Tunnel: un’inedita parrucca di fumo sbucava più o meno dal luogo dell’appuntamento, invadendo un cielo di settembre, limpidissimo.
Nel 1966, Yamasaki era già molto celebre come architetto “neoformalista” e Robertson come ingegnere esperto in grattacieli. La loro committenza a New York, cioè quel lavoro, era partita: un insieme di sette costruzioni da tirar su fra South e Lower Manhattan, per celebrare gli interscambi commerciali del mondo, e per farsi notare in due particolari uguali e senza eguali, almeno in altezza. Due torri di 415 metri (un’altezza record) che rifacevano la cartolina di New York, o il colpo d’occhio di chi atterrava e delle persone che sbarcavano. Iniziava la biografia delle Twin Towers: una specie di ottava meraviglia del mondo, che in parte condivide con le altre sette dell’antichità, il fatto di essere citata soprattutto per la sua drammatica morte.
Perché quelle torri sono nate, e a quali costi? Il conto complessivo è noto: circa 335 milioni di dollari prevalentemente pubblici, erogati dalla Port Authority di New York e del New Jersey. La ragione, o meglio lo spirito dell’impresa può stare anche in una battuta di Guy Tozzoli. Compiendo 40 anni, nel 1962, e spronando l’architetto, gli avrebbe detto: «Yama, il presidente Kennedy sta spedendo un uomo sulla luna. E tu stai scoprendo la strada per tirarmi su il più alto edificio del mondo».
Tirarmi su, cioè facendo quasi un favore a lui stesso e all’America. Disegnando un progetto che conteneva molte cose immediate (l’affermazione di un ruolo economico e di scambio, di un paesaggio da capitale di tutto, di un tipo di bellezza urbana e sempre perfezionabile), e altre meno evidenti (una specie di compensazione ai pantani della politica imperiale, Vietnam in testa).
Tozzoli dirigeva quel cantiere (terminato nel 1976) lungo un decennio americano che sperimentava traguardi e tragedie: l’omicidio dei Kennedy, la vittoria dei diritti civili, la presidenza Nixon, la ritirata da Saigon, il disgelo con la Cina, il Watergate, il tempo di Rothko e di Andy Warhol, il primato nel rock, e nella concentrazione delle idee e dei capitali.
Le Torri Gemelle, ma tutto il complesso, progettato nella zona più aperta di Manhattan, erano lo scambio col mondo che doveva partire da lì. Come un dato di realtà. E le 50 mila persone, più che globalizzate, che lavoravano dall’alto in basso in quegli uffici, facevano una specie di concorrenza al complesso delle Nazioni Unite concepito da Le Corbusier e, in parte, da Niemeyer. Quando, il 13 luglio 1977, New York si trovò bloccata dal suo più celebre blackout, il World Trade Center era fatto, e quel nero improvviso poteva essere visto come una pausa involontariamente necessaria, più che come un simbolo anticipato di tempi bui.
Tozzoli aveva molta esperienza sul terreno: entrato alla Port Authority nel 1946, aveva ammodernato diversi terminal sull’Hudson: a Brooklyn, in particolare, e a Port Newark and Elizabeth, nel New Jersey. Il suo procedere, con Yamasaki e con l’ingegner Robertson, coincideva con il suo carattere, oltre che con delle direttive: tenere calmi i nemici del progetto, e lavorare ai fianchi un problema dopo l’altro.
È stato scritto come lui «abbia guidato un gruppo diversificato di sognatori, di urbanisti, di architetti, e di costruttori». Qualche grana l’ha avuta, una volta fatto il lavoro. Sarebbe rimasto direttore dell’autorità portuale, e avrebbe presieduto un’associazione legata al Trade Center, che promuoveva “il commercio internazionale”: in quella doppia veste (pubblica e privata) lo avevano accusato di un’eccesso di “travel budgets” nell’organizzare giri promozionali nel mondo a spese dell’authority. Non avrebbe negato la manica larga, precisando però «di non aver mai intascato un penny».
È morto a quasi 91 anni, rispettato e ricordato come uno dei pionieri della storia di New York. O come un direttore dei lavori dell’antico Egitto, sopravvissuto alla distruzione di una piramide. O come un uomo fortunato: per essersi fermato, in macchina, all’imbocco dell’Holland Tunnel, la mattina dell’11 settembre 2001.
Xu Liangying
(3 maggio 1920 – 4 febbraio 2013)
Albert Einstein, nato nel 1879 e quindi più vecchio di due generazioni, avrebbe incrociato la vita di Xu in modo determinante. Anche Xu era un fisico, e avrebbe scoperto Einstein, in prima battuta, attraverso gli scritti umanistici. In particolare con il libro “Come vedo il mondo”. Prima lettura, nel 1939, ancora durante l’università, a Zheijang, dov’era nato. Seconda ripresa, nel 1962, con traduzione in cinese di quella e altre opere di Einstein. Negli anni della prima lettura, Xu era un giovane rivoluzionario iscritto al partito comunista, che partecipava alla lotta contro gli invasori giapponesi. Nel 1962, era un fisico-umanista, che aveva già scontato diversi anni di “rieducazione” in un campo di lavoro, trasformandosi, per vivere, in un contadino obbligato.
Dopo la vittoria di Mao, nel 1949, Xu, devoto alla rivoluzione, si meritava un insegnamento all’Accademia delle Scienze di Pechino. Lo Stato comunista, come ogni Stato di quel genere, pretendeva di avere una visione scientifica di ogni relazione umana, e quindi coltivava gli scienziati e la loro ragione “materialista”.
Il nuovo Stato cinese usava i suoi scienziati anche come funzionari di primo piano: come propagandisti e come educatori. O rieducatori. Xu si adattò con convinzione ideologica: giovane e rispettato scienziato si prestò a fare il censore di pubblicazioni accademiche non conformi. O a stanare pubblicazioni “inaccettabili” e semiclandestine.
Da studente, e poi neolaureato, il primato della politica (anche sul sapere scientifico) lo faceva optare per il principio della “rivoluzione totale”: unico passaggio per trasformare da cima a fondo la Cina. Nella vita di Xu, questa visione – che lui pretendeva scientifica – ha tenuto fino al 1957. In quell’anno, in pieno periodo dei “cento fiori” (una formula celebre con cui Mao illudeva i cinesi e il mondo su una stagione di apertura), Mao stesso stabiliva che gli intellettuali si esprimessero sulle eventuali manchevolezze del partito. Xu fece una serie di critiche, ancora dentro i limiti. Bastava: fu espulso dal partito e da ogni funzione pedagogica come “elemento di destra”.
I già citati anni di internamento furono una conseguenza, e i più profetici fra gli intellettuali cinesi, ne vedevano il prologo a un ulteriore epoca di chiusura. Altro che chiusura: la rivoluzione culturale e proletaria – ufficialmente “grande” – dei tardi anni Sessanta sarebbe stata un’ecatombe di vite (milioni di morti) e di pensiero.
Celebri i processi e le umiliazioni pubbliche agli uomini e alle donne con un sapere sviluppato (insegnanti, scrittori, scienziati): anche la fisica non si salvava, e quindi anche Einstein veniva sbeffeggiato in nome dell’ideologia. Una specie di secondo tempo, o di secondo martirio della teoria della relatività: negli anni del nazismo veniva definita “un colossale bluff ebraico”, nella Cina di quegli anni veniva messa alla gogna come “scienza borghese”.
Il traduttore di Einstein era Xu, e quindi le sue traduzioni erano una prova e una colpa: la prova della deviazione borghese e di destra di quel traduttore coincideva con la colpa di aver divulgato quelle teorie borghesi al massimo grado. Passata la tragedia, nell’epoca di Deng, Xu, riammesso all’università e reintegrato anche come uno dei massimi scienziati del Paese, non si integrò più.
Nei tardi Ottanta, faceva una dichiarazione programmatica al New York Times: «Mi sono liberato totalmente del marxismo, e sono tornato ad Einstein». Siccome la nuova Cina dell’accumulazione del capitale, si guardava bene dal liberarsi del marxismo di facciata e della repressione per difenderlo, Xu si integrava ancora meno. Diventando uno dei più coraggiosi e scientifici combattenti per la democrazia e i diritti civili.
Fino alla fine, fino a 92 anni. Lo rispettavano, e ne temevano l’intelligenza: avrebbe naturalmente sostenuto gli studenti della Tiananmen, ma, dopo il massacro, non l’avrebbero né processato né imprigionato. Prima del massacro, l’ aveva previsto: «È la natura di questo governo». Un’analisi diretta, da scienziato dei lumi. Ha passato gli ultimi dieci anni nel suo appartamento di Pechino, discretamente piantonato dalla polizia.
Riceveva studenti, artisti, scienziati, dissidenti: come un saggio della tradizione cinese, e come faceva liberamente Albert Einstein, quando riceveva il mondo a Princeton, negli ultimi anni. Di Einstein, Xu citava sempre una frase, quella che gli aveva aperto lo sguardo: «Lo Stato è fatto per gli uomini e non viceversa. Lo scopo dello Stato risiede essenzialmente in questo: proteggere la persona, e offrirgli la possibilità di realizzarsi come creatore, o creatrice».