Zhuang Zedong
(25 agosto 1940 – 10 febbraio 2013)
Campione cinese nel ping-pong. Attraverso di lui, Richard Nixon ha toccato un massimo livello di popolarità mondiale: nel 1971, due anni prima della caduta, cioè del Watergate. Con una serie di vittorie a catena, nel 1961, 1963, e 1965, entusiasmava Mao, che si incollava alla televisione per vederlo giocare. Il Timoniere aveva già diramato una direttiva ai giocatori di quello sport nazionale: «Guardate la palla e pensate che sia la testa del nemico capitalista. Poi colpitela con la vostra battuta socialista!».
Capita di sopravvivere, o di morire, nella Storia, facendo la cerniera. Spesso involontariamente. E quando si sopravvive, può capitare di essere fotografati come un’istantanea irripetibile, e di raccontare le proprie avventure come una verità romanzesca. A Zhuang è andata bene, soprattutto grazie al suo essere un uomo sportivo. Riassumibile in due qualità: quando sembrava perdente, o perso, scompariva e rinasceva, quando un frangente era normale, ha tirato fuori un gesto fuori dalla norma.
Il suo gesto da campione era celebre: una battuta, un destro, definito “perfetto”. Il suo tirocinio sul tavolo (quello del ping-pong, ovviamente) datava dall’adolescenza. Il suo muoversi nella feroce storia cinese degli anni Sessanta, sembrava protetto dall’esplicito favore di Mao: «Gioca benissimo, vince sempre». Quello sport era sponsorizzato dall’alto: come un primato nazionale, anche perché era un gioco che tutti potevano permettersi. I contadini e gli operai, oltre ai borghesi. Il fatto di essere così trasversale diventò pericoloso nel pieno della Rivoluzione culturale: e così anche il povero ping-pong diventava un’onta competitiva e sostanzialmente borghese.
Molti giocatori si suicidavano in quegli anni di tragedie quotidiane, e anche Zhuang, il campione (mondiale), scompariva. Ma vivo. Mao gli aveva visto una qualità inedita: «È un ottimo elemento nelle relazioni internazionali». Zhuang, intervistato da vecchio, avrebbe sportivamente mentito, almeno un po’: «Quando giocavo, nei campionati internazionali, a tutto pensavo, meno che alla politica». Quando si va in trasferta, provenienti da una dittatura, e da un periodo ecatombale come quello delle guardie rosse cinesi, il fatto di essere fuori può permettere atti politici, anche inconsapevoli. Succede in genere agli sportivi, e ai musicisti.
È successo, nel 1971, che il campionato mondiale di ping-pong – il 31esimo – si svolgesse in Giappone, e che un giocatore americano di nome Glenn Cowan, dopo aver perso l’autobus con cui spostarsi per gli allenamenti, chiedesse un passaggio al team cinese. Circa un quarto d’ora di viaggio, e un set mai visto: uno sportivo degli Stati Uniti, imbarazzato ospite, ma poi amalgamato collega di una squadra di comunisti orientali che si sgelano. E, fra questi, uno che piazza il gesto storico, quando si tratta di scendere: gli regala una sciarpa ricamata con i monti della regione del Huangshan. Quell’uno – unico per sempre – è Zhuang Zedong, e la scena viene fotografata per il mondo.
L’altro Zedong, a Pechino, cioè il presidente Mao, vede l’immagine e intuisce come il tavolo della Storia (in cui la Cina e l’America sono indefettibili nemici e si fanno la guerra per interposto Vietnam) possa essere giocato con altre mosse. Una, in particolare: invitare il presidente americano – Richard Nixon, un marchio anticomunista – in Cina. Succede due mesi dopo, e il fatto apre una serie di file, uno più ad effetto dell’altro.
Permette ad Henry Kissinger (Segretario di Stato) di passare alla Storia, apre una nuova fase cino-americana di contenimento antisovietico, fa “parlare” del Vietnam in un modo più laico, e fa vedere la foto del Timoniere ancora padrone del suo Paese, e di quel presidente degli Stati Uniti che crede di potersi permettere tutto all’interno del suo. Anche spiare con delle cimici dentro un albergo gli avversari politici.
Anche Zhuang, lo sportivo, viene premiato: col favore della moglie di Mao –l’intrigante Jiang Qing – che lo fa entrare nel Comitato Centrale del partito con compiti poco edificanti, applicati ad altri sportivi. Cioè denunce di massa, autocritiche, e punizioni corporali. Gli tocca, un’altra volta, di fare la cerniera fra un tempo e l’altro. Anche se deprivato di estro involontario, e a tempo: con la caduta di Jiang e della sua “banda dei Quattro”, il campione di ping-pong viene spedito in esilio due anni e mezzo, nella regione dello Shanxi, ad autorieducarsi.
Niente di tragico: lo sport fa risorgere, e quella battuta di destro di Zhuang aggiunta al gesto della sciarpa e alle sue conseguenze, daranno la sintesi in una celebre espressione. Si chiama “diplomazia del ping-pong”, e ha fatto passi da drago. Lasciando a Zhuang il suo ruolo estroso e meditato. Anche nel pentimento: «Dopo ho fatto molte cose riprovevoli, e chiedo scusa».
Mo-Do
(24 luglio 1966 – 6 febbraio 2013)
Nome d’arte decisamente inventivo:si chiamava Fabio Frittelli, e aveva creato quella sigla traendola da Monfalcone, dov’era nato, e dal fatto di essere nato di domenica. Un “modo” per farsi conoscere nell’hard rock. Un successo nelle discoteche degli anni Novanta. In Italia e in Europa. Soprattutto con una vecchia filastrocca tedesca rivista in versione techno: «Eins, zwei, polizei». Il ritmo è ossessionante e oscuramente urlato, come la parodia di un ordine senza senso: «Uno, due, polizia…». Lui , Mo-do, tiene la scena, e canta, come un’immagine contemporanea a quei tempi, rimandando anche al passato. È un uomo giovane, biondo, con gli occhi azzurri, totalmente nordico. È, insieme, un rockettaro, un modello, e una citazione “germanica”. Il tedesco che impartisce, e seduttivamente urla, è del tutto consono. Anche perché è una lingua madre.
Sua madre era austriaca, aveva iniziato come bassista, e il terreno della sua carriera è stato tutto nordorientale: in quel Veneto largo che da sempre orecchia il tedesco dei villeggianti, e che ha costeggiato le storie, quasi sempre drammatiche, provenienti da quei confini. Con polizie ( o “polizei”), gendarmerie, confronti in armi, fronti di guerre, occupazioni. Dai tempi – più civili – della Serenissima contro l’Austria, al Novecento totalmente tragico della Grande Guerra e poi del protettorato nazista sull’Adriatico.
La filastrocca attacca con «Uno, due, polizia» e prosegue con «Tre, quattro, granatiere» («Drei, vier, grenadier»). E chiude con: «Che cos’è questo?» (“Was ist das?”). All’origine, era una ballata da cantare ai bambini, per far la rima con i numeri. Mo-do la riveste di ritmo per far ballare in discoteca gli adolescenti fino ai vent’anni. Il modo sarebbe, alla lettera, post-moderno, ma c’è qualcosa di assordante, e non solo perché il ritmo è techno: assorda quel richiamo, o quella memoria, militare.
O è un’idea che sbeffeggia, e fa la parodia hard-rock, a un triste passato di pifferi e passi dell’oca? Un’idea, nata nel Nordest italiano, che ancora negli anni Novanta si gloria del suo decollo economico e autonomo: un po’ veneto, e un po’ germanizzante (dato che a settentrione, dove si parla tedesco, c’è ricchezza, e modello ordinato-federale di sviluppo). Germania e Austria restano «il vecchio stregone», da quelle parti. Anche in epoca di “fine della storia” (fittizia): la filastrocca dice, al terzo verso, «Funf, sechs, alte hex», cioè «Cinque, sei, vecchio stregone». Nel ritmo di Mo-do, la forma cambia, ma l’effetto-eco resta. O almeno vale come un’interpretazione possibile.
Anche se in quell’estate e in quelle discoteche, a tutto pensa chi si scatena in quel ritmo, meno che a significati traslati. O alla Storia contemporanea (il Muro di Berlino che cade) e a quella che ha tragicamente marciato – parlando tedesco – 50, 30, 10 anni prima.
Fabio Frittelli è morto a 46 anni, a casa sua, probabilmente suicida. La procura ha stabilito di non fare l’autopsia. Dopo «Eins, zwei, polizei» si è ritirato, a tappe, dal cantare. Si è variato in qualche apparizione come fotomodello (per Versace, Dolce & Gabbana), decidendo, alla fine, di gestire una discoteca a Lignano Sabbiadoro. Un amico lo ha rimpianto così: «Era un uomo da prendere ad esempio per la sua onestà».