Tony Cavendish
(27 luglio 1927 – 12 gennaio 2013)
Avventuroso, sportivo, di mondo, generoso, fumatore di sigari. E decisamente intelligente, oltre che fedele alle amicizie vere, e a contatti cosmopoliti. Una spia inglese di questo tipo (dell’MI6, la sigla dei “servizi” di Londra), sfugge ai luoghi comuni: e non solo perché ha lavorato nei luoghi dell’intelligence. Se si contano tutti quei caratteri, si vede che perfino al colonnello Lawrence, o a James Bond – più celebri di Tony Cavendish – è mancata una marcia rispetto allo stesso Tony. Quale?
Il fatto di poter fuoruscire, senza troppi sforzi, dal proprio tempo. Con tutte le sue qualità (di narratore, prima di tutto), è arduo immaginare un Lawrence consono agli arabi o al Medio Oriente di oggi. E anche una fiction come Bond difetta d’attualità: troppo guerra fredda – nonostante i continui aggiornamenti cinematografici, e il modello sovranazionale della Spectre – e soprattutto troppo teatrale, o chiaro. Come emissario virile, invulnerabile, e spiritoso del mondo libero.
In un mondo geopolitico come quello di oggi, quel tipo di seduzione attiva, ironica, ed eventualmente irresistibile, viene smentita dalla realtà dei fatti e delle persone. Basta constatare il livello medio di chi dirige (Barack Obama a parte, e per ora) e immaginare, a specchio, il modello di intelligence conseguente. Senza contare la diffidenza generalizzata nei confronti di tutte le verità ufficiali: giusto e sano fare le pulci ai poteri, ma il più discount fra i beni di consumo del settore resta quello del “complotto” ad ogni prezzo (come quello delle Torri Gemelle fatte distruggere, al coperto, dall’amministrazione americana). Con conseguenze d’immagine e di sostanza: se niente e nessuno è più credibile, anche qualsiasi agente segreto globalizzante sarà consono a doppi, tripli, quadrupli giochi. A meno che, nel serissimo gioco dell’intelligence, qualche incrocio aggiornato fra ragion di Stato e principi non faccia rispuntare un prototipo di spia adatto a un avvenire meno sospettoso.
Un gentiluomo, o una gentildonna, ancorati a un minimo di valori, disposti all’avventura e ai rischi per far coincidere il proprio lavoro con la comprensione del mondo, sportivi quel tanto di indispensabile nell’azione, e un po’ di più quando arriva il momento di dire la verità non ufficiale. Cioè quella vera, che può anche non combaciare con un piano già coperto per esigenze di secretazione, o perché l’affare era impresentabile.
Eccolo qua, allora, il modello Cavendish: proponibile in qualche fessura di vita. In divisa militare, un bell’ufficiale un po’ da film, ma non da attore. Padrone di tre lingue, a parte l’inglese: tedesco, francese, e svizzero-tedesco (perché era cresciuto a Pontresina, cioè nella magnifica Engadina dei Grigioni). Tre volte sportivo.
La prima: amava correre in macchina, e si era rotto due volte la schiena in quel piacere. La seconda: difendeva spontaneamente gli amici. Anche gli amici-agenti. Lo avrebbe fatto, scrivendo e in servizio (cosa inedita, per un lavoratore dell’intelligence) con Sir Maurice Oldfield – già capo dell’MI6, poi in carica a Belfast negli anni Ottanta – accusato, all’interno dell’agenzia, di aver nascosto relazioni omo, suscettibili di ricatto (ma Oldfield si era solo fatto gli affari suoi, e non sarà mai ricattato). La terza: corrispondeva a un quadro preciso di comportamento. Secondo cui, un agente inglese doveva avere “sense of humanity and personal dedications to democratic ideals”. Non molte spie si attengono a questi caratteri. È anche uno sport, cioè una specialità, non comune. Tony l’ha avuta, un po’ adattandola, in tutti i posti chiave dove è stato mandato nel dopoguerra: al Cairo, in Medio Oriente, in Germania, in Austria.
Tony Cavendish è attuale anche in queste dislocazioni: non tramontano come zone calde, anzi. Lui ha agito nel nuovo Egitto di Nasser e della crisi di Suez, nell’Iran del 1953, dove i servizi anglo-americani organizzavano il colpo contro Mohammed Mossadeq, e a Berlino e a Vienna, cioè ai confini della guerra fredda. Era entrato nell’esercito a 17 anni, durante la guerra. Sarebbe passato all’intelligence dal 1945, e lì sarebbe rimasto, alternandosi anche come giornalista-corrispondente (per la United Press e per la Bbc) per poco più di 40 anni.
Essendo un agente particolarmente informato, colto, e intelligente, sapeva stanare le notizie. Essendo uno sportivo, ha saputo usarle al momento buono, e per la chiarezza, o la verità. Contro una regola governativa inglese così sintetizzata: «The official British view is that the past and present functions of intelligence services do not form a proper subject either for polite patriotic discussion, or for parliamentary debate or for academic research». Magnifica prosa, di cui Tony si è fatto un baffo, nei tardi anni Ottanta: con strati di servizio, di memorie, e di esperienza elaborata.
Continuavano a calunniare il suo amico Oldfield, anche perché, a Belfast, aveva organizzato contatti ufficiosi con le gerarchie cattoliche. L’azione di Cavendish è stata di una trasparenza protetta: ha stampato, all’interno dei servizi – un po’ come delle “Christmas Card”- una serie di resoconti su operazioni, varie e differenti, dell’intelligence negli ultimi trent’anni. Sarebbero state pubblicate da Harpers Collins nel 1990: dopo che il governo aveva cercato di farlo smettere, e dopo che i Law Lords avevano stabilito, in ultima istanza, che quelle notizie potevano essere pubbliche.
Tony aveva informato, fra l’altro e nei dettagli, di come Mossadeq fosse stato buttato giù nel 1953, di come il premier laburista Harold Wilson fosse stato avvertito di pericolose infiltrazioni della destra all’interno dell’MI6, di come i contatti di Oldfield, nel Nord Irlanda devastato, avessero avuto qualche successo (un vero prologo alla futura mediazione del governo Blair).
Qualche anno fa, Frank Snapp –ex agente della Cia – ha scritto che gli agenti inglesi sono, in genere, «molto meglio” dei cugini americani». Perché non si abituano alle “azioni coperte”.
Eppure, è stato scritto anche che l’MI6 ha una spiccata “obsession with secrecy”. Tony Cavendish, nei suoi anni migliori, è stato più fortunato del suo Paese, negli anni del tramonto. Se si considera che lui, nel 1956, era Budapest, “coperto” come giornalista per la United Press: i russi lo arrestavano, lo interrogavano come sospetta spia, e poi lo rilasciavano per sbaglio. Perché un agente del Kgb non aveva capito che Tony doveva essere trasferito a Mosca per ulteriori accertamenti.
In quegli stessi anni, la Corona aveva in servizio il brillantissimo agente Kim Philby – figlio di St. John Philby, già consigliere speciale del primo re saudita Saud. Kim, comunista da sempre, lavorava per Mosca dal 1934: in 25 anni aveva passato importantissime informazioni, e, scoperto a Beirut nel 1963, riusciva, per un pelo, a passare in Unione Sovietica. Dove sarebbe vissuto fino alla morte, nel 1988.
I successi personali di Tony lo hanno fatto ricordare per tutte quelle qualità citate in testa. Lo scacco al regno di Philby aveva suscitato questo commento sugli agenti inglesi: «A bunch of supercillious snobs worthy only of disdain». Un gruppo di snob altezzosi e degni solo di disprezzo. Tony Cavendish, lo sportivo, ha vinto sul gruppo. O almeno è stato diverso. Una buona promessa, per formare, uno per uno, i prossimi uomini dei sevizi.
Max Kampelman
(7 novembre 1920 – 25 gennaio 2013)
In Italia l’avrebbero chiamato, malamente, «una riserva della Repubblica». Non per fargli fare il premier, ma per usarlo come un personaggio simbolico di mediazione, quando non c’è nessun altro adatto al compito. In America, dove Max era nato (a New York, da emigrati romeni di nome Kampelmacher), sono notoriamente più precisi nei ruoli: pochi simboli, ma competenze e qualità da usare. In situazioni da superpotenza. Il ruolo deriva dai risultati. E risultati fanno trovare alla persona il posto nella Storia.
Kampelman era un bravissimo avvocato e giurista (diritto civile), attivo soprattutto nel Minnesota. Democratico, amico e consigliere giuridico di Hubert Horatio Humprey, (futuro candidato alle presidenziali) e di Walter Mondale, vicepresidente di Jimmy Carter. Aveva intelligenza e pazienza, non era un uomo d’apparato, e la sua biografia aveva avuto un debutto originale: era un convinto pacifista allo scoppio della guerra, senza essere accanito contro la linea di Roosevelt (appoggio all’Inghilterra assediata, in un’America ancora molto neutralista, prima di Pearl Harbour).
Era un giovane studente di legge contro la guerra: anche se il nemico era Hitler, e lui, Kampelman veniva da una famiglia ebraica e osservante, emigrata dalla Romania. Quella base ideologica, e ideale, più una solida conoscenza del diritto internazionale e dei modi di aggiornarlo ai passaggi della guerra fredda, avevano convinto Jimmy Carter che Kampelman era un esperto perfetto per trattare con i sovietici una bozza di accordo sulla “cooperazione e la sicurezza” in Europa: era il 1975, sarebbero derivati gli accordi di Helsinki.
Le parti avevano previsto tre mesi di discussioni, Kampelman parlò realisticamente di qualche anno. Era un anticomunista ragionante, molto sottile nelle argomentazioni, e che voleva “riscontri” dopo gli accordi. Un mediatore, oltre la mediazione: il fatto concreto doveva seguire. Una riserva di competenza, usata da Ronald Reagan, negli anni Ottanta, per trattare con l’Urss gli accordi sulla limitazione delle armi nucleari. Nel momento in cui si pianificava e si propagandava lo “scudo stellare”, Kampelman mediava su un risultato storico. Che tiene tuttora. Era un mediatore chiaro: «Le firme non producono necessariamente dei risultati».
Rispetto ai mediatori di oggi (in una geopolitica più complessa, e con scacchi ripetuti, soprattutto in Medio Oriente) Kampelman è stato un “esperto” di successo. Da vecchio (è morto a 92 anni), ha avuto un altro pensiero originale sui suoi ideali di giovinezza: «Lo sviluppo della bomba atomica e di quella all’idrogeno, mi hanno fatto dubitare del potere della non violenza nel quadro della politica internazionale». Credeva ad altri poteri, o ad altre possibilità (la trattativa inevitabile) e sostanzialmente gli era rimasto un principio: la deterrenza. Qualcosa di concreto, e anche di “morale”.