È il febbraio 1956. Ancora Kruscev non ha letto il suo rapporto segreto sullo stalinismo; il Psi sta cercando una sua via dopo anni di alleanza a sinistra con il Pci. La Democrazia Cristiana è in una fase ancora di transizione dopo la morte improvvisa (nell’agosto 1954) di Alcide De Gasperi.
L’area laica e liberale progressista sa che deve ripensare per sé un ruolo. Non è l’area dei professionisti. È soprattutto l’area dei senza-partito, dei cittadini che si sentono prima di tutto cittadini e insieme militanti. Che amano la politica e che pensano che la politica sia patrimonio di uomini e donne libere che sanno che la politica non è la loro professione, ma che alla politica sono disposti a dare parte del loro tempo libero che non percepiscono come tempo sottratto a qualcosa come tempo dedicato.
Si riuniscono a Firenze il 4-5 febbraio 1956 e fondano il Partito radicale. A dare la linea, a esprimere questo sorta di patto per la politica, è Leo Valiani, il segretario del Partito d’azione nella Resistenza (sono le parole d’esordio della su relazione a quel congresso con cui si presenta). E chiude nelle ultime pagine affrontando il tema appunto di che cosa debba essere l’organizzazione di un partito che non vuole funzionari, ma vuole individui disposti a confrontarsi, a discutere e possibilmente a metterci del loro.
Leo Valiani, Il partito dei non funzionari*
Vengo all’organizzazione. Un partito non vive se non ha un’organizzazione, un partito moderno non vive se non si adegua alla società moderna; voi non potete più far visita all’individuo a casa sua, perché purtroppo di salotti con gli affitti odierni non ne abbiamo più. Quindi non abbiamo più lo spazio per ricevervi in casa, nessuno, o solo qualcuno forse ancora gode degli ultimi decori di una borghesia dell’800, ma in generale siamo agli sgoccioli.
La vita politica non riesce più a svolgersi nei salotti e non riesce sempre a svolgersi neanche nelle sedi dei partiti perché per quanto ricchi siano certi partiti, il Partito Radicale non è un partito ricco. Ma anche se si tratta della democrazia cristiana o del partito comunista, se voi guardate a quante sono le sedi di questi partiti che invoglino ad una vera vita associata vedrete che sono ben poche sull’insieme del territorio nazionale. Nella maggior parte delle sedi di sezioni democristiane e socialiste e comuniste, se entrate, vedrete un certo numero di macchine da scrivere funzionare qualche giornale, qualche rivista, qualche libro, non troppi, e poca possibilità di mettersi attorno ad una “tavola rotonda” e di discutere seriamente.
Ora, se questo avviene nei grandi partiti, a maggior ragione sono in difficoltà i minori. I grandi partiti ciò nonostante riescono a portare milioni e milioni di cittadini a votare per loro e decine di migliaia o talvolta centinaia di migliaia di cittadini a sostenerli in un’azione quando la decidono per un motivo qualsiasi, perché hanno un’organizzazione capillare, che funziona là dove si svolge la vita moderna. La verità è che gli stati d’animo politici e sociali si determinano ormai sui luoghi di lavoro. Questa è una triste cosa se si vuole, per un liberale, perché inizialmente è ovvio che il liberalismo è sorto in polemica contro il corporativismo di origine medievale, sgombrando di ogni vincolo i luoghi di lavoro e portando la vita pubblica a svolgersi sulle piazze, nelle sezioni dei partiti, nei circoli di cultura, nei salotti, se volete.
Questo fu l’atteggiamento iniziale dei liberali. Ma se fu un atteggiamento giusto allora, sarebbe erroneo oggi. Oggi dovete portare i temi della vita pubblica italiana là dove la portano gli altri, nelle professioni, nella vita economico-sociale; beninteso non durante l’orario di lavoro, certamente no, noi siamo contrari alla politicizzazione del lavoro aziendale perché allora non si lavorerebbe più e tutto andrebbe a catafascio, l’Italia decadrebbe e non avrebbe più una sana economia se invece di lavorare nelle aziende la gente facesse politica.
Ma c’è un sottile filo di organizzazione professionale, sottile come un rasoio, sul quale bisogna saper camminar in queste contingenze, raggruppare la gente che si viene a conoscere secondo la sua condizione professionale di lavoro, di studio, che si viene a conoscere nelle università, nelle suole, negli uffici, nelle aziende, nelle fattorie, negli enti di riforma, non fargli fare politica in ufficio, questa è una deleteria abitudine dei partiti localmente più forti e potenti, dargli appuntamento uscendo di lì, in un locale qualsiasi che si troverà, in qualche aula gentilmente prestataci per discutere i temi che scaturiscono dall’esperienza viva. Bisogna trovare nelle scuole, nelle aziende dello Stato, nelle aziende private, nelle fattorie, nelle università, nelle amministrazioni, questi amici nostri che sono disposti una volta alla settimana, una volta ogni quindici giorni, meglio se una volta per settimana, a venire in un’aula gentilmente prestataci non già a sentire dei discorsi di propaganda, ma a discutere con la loro esperienza viva quei temi, quei problemi concreti che noi proponiamo. Questa proposta non è solo mia; l’amico Alberto Mondadori, assente per malattia, mi chiede di farvela anche a suo nome.
Questa sintesi pratica, questa conciliazione empirica fra l’idea liberale da un lato, per cui non è sul lavoro che si fa politica, per cui chi fa politica, nel senso nobile della parola, la fa dopo aver compiuto il proprio lavoro, e dall’altro fra la penetrazione professionale che è venuta invece dall’organizzazione socialista o cattolica e ormai ha pervaso tutta la vita italiana e internazionale, che cioè raggruppa politicamente gli uomini là dove la società stessa, l’economia organicamente li raggruppa e li porta a discutere sui temi, sui problemi che scaturiscono dalla loro esperienza di lavoro, questa conciliazione racchiude in sé il segreto del successo del Partito Radicale.
Se questa conciliazione la sapremo attuare, se sapremo trovare i simpatizzanti e portarli alla discussione su problemi di loro esperienza, accumulati là dove essi si raccolgono nella vita reale e contemporaneamente sapremo far fare loro non già opera faziosa di rallentamento o accorciamento del lavoro per dibattiti politici, ma opera di cultura politica finito il lavoro, in dibattiti su riforme, arricchiti dall’esperienza del lavoro, noi diventeremo in giorno un grande partito.
*Leo Valiani, Relazione introduttiva al 1° Congresso nazionale radicale, in Mario Pannunzio – Leo Valiani, Democrazia laica, a cura di Massimo Teodori, Aragno,, Torino 2012, vol. II, pp. 363-365.