Sono ormai due gli anni passati dall’inizio delle rivolte libiche. Era il 17 febbraio 2011, quando la rivoluzione, toccati i paesi vicini, prendeva piede nella fitta geografia dei clan della Jamahiriyya, e scatenava la guerra. Ed è passato poco meno di un anno da quando la stampa internazionale si accorgeva dell’esistenza di Monte Campione, stazione sciistica della Valle Camonica, nell’alta e profonda provincia di Brescia.
La distanza tra le due situazioni è solo apparente. In mezzo, passa il filo rosso di 118 profughi, fuggiti via mare dalle coste libiche, approdati a Lampedusa, radunati, smistati e portati, in pullman, a 1800 metri d’altezza, a Monte Campione, appunto. Una parentesi finita: le loro storie sono continuate, divisi per tutta la regione. Ma quando loro arrivano lassù Le Monde e altri giornali internazionali scoprivano il Residence Le Baite, agglomerato di appartamenti e alberghi che, a forma di “serpentone”, solcava il dorso della montagna, e che costituisce l’unica struttura esistente lassù. Impianti sciistici a parte. «Una situazione che ricorda Shining di Kubrick», scrivevano. Dentro, però, c’erano i profughi.
«È stata una vicenda dolorosa, quella», ricorda Gianpietro Cesari, dal 2011 eletto sindaco di Artogne dal 2011, paesino («con 3500 anime») ai piedi della montagna, a capo di una lista civica («che ha sbancato contro tutti»). Ad Artogne spetta il controllo di Monte Campione. «Mi ricordo ancora quando sono arrivati. Ci aveva convocato la prefettura qualche giorno prima, dicendo che “sarebbero arrivati 118 profughi da Lampedusa, e che sarebbero stati ospitati nei nostri alberghi”. Io ho sussultato». Perché? «Perché ad Artogne non ci sono alberghi». E non avrebbe mai pensato che, in quel momento, si parlasse di portarli a 1800. «Quello non è mai stato definito “hotel”, prima di quel giorno. L’albergatore [Massimo Di Filippo, n. d. r.] ha preso la decisione senza consultare nessuno. Si poteva fare – precisa – ma si parla di un numero di persone molto alto, in una situazione anomala». Il vantaggio di ospitare i rifugiati, per chi concedeva gli alberghi, è un compenso in denaro: 35 euro al giorno per ogni profugo. «Non è certo poco».
Il “serpentone”, Residence Le baite, che ospitava i rifugiati (da Flickr)
Qualche giorno dopo, «sono andato ad accogliere il convoglio. Eravamo io e due rappresentanti delle forze dell’ordine, a 1800 e guardavamo in vallata». E sotto, un pullman seguito da un’auto dei carabinieri che si inerpicava con difficoltà sulla strada tortuosa.
«Non volevamo crederci. E nemmeno loro: erano spaesati e stupiti. Erano partiti da Taranto, una lunga marcia, per arrivare lassù». In cima, lontani da tutto e da tutti. Del resto, a Monte Campione si scia. Il paese più vicino, Artogne, è lontano 20 km, una strada a curve e in salita. Per il resto, la Croce Rossa non può mantenere un presidio, e non c’erano né lavanderia né cucine adeguate. «Il luogo era inadatto, ed è dir poco», continua il sindaco. L’arrivo degli stranieri, poi, in paese provoca anche alcune critiche. «Da parte del gruppo consiliare della Lega. Ma sono finite subito». Una fiaccolata, una manifestazione. E qualche protesta.
Ma il punto è un altro: come è successo tutto questo? Perché per mesi, la cima di Monte Campione è stata popolata da rifugiati dalla Libia – che provenivano, in realtà da tutte le parti dell’Africa (Senegal, Sudan). «La situazione è tortuosa», spiega Carlo Cominelli, della onlus K Pax, di Breno, paese della Val Camonica, vicino. La sua cooperativa, che opera anche nel quadro dello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) si è occupata fin dall’inizio del caso, ha cercato di fornire i servizi necessari, sedare le rivolte, dialogare con loro e, con il tempo, ricollocarli, a piccoli gruppi, in altre destinazioni. «Il nostro obiettivo è di renderli autonomi: con un lavoro e inserimento nel nostro tessuto sociale».
Ma tutto comincia prima, «con il caso dei profughi dalla Tunisia». Arrivati in Italia, ricevono un permesso di protezione umanitaria: temporaneo, e che permette di vivere e di lavorare in Europa. «Una volta ottenuto, lasciano l’Italia e vanno in Francia». Parigi, di fronte al flusso, blocca la frontiera: nasce un caso internazionale delicatissimo, da evitare di ripetere. E allora «nella seconda ondata, di profughi provenienti dalla Libia, che sono quelli che poi sono finiti in Val Camonica, si è preferito agire in modo diverso». Niente protezione umanitaria, e distribuzione – provvisoria – nel territorio nazionale. In attesa di ratificare la posizione giuridica dei profughi, attivando la procedura dell’asilo politico. «Per la gestione, se ne occupa la Protezione Civile, che in questo caso applica una logica da emergenza». I rifugiati, arrivati a Lampedusa, vengono suddivisi per ogni regione e provincia d’Italia, seguendo il criterio della popolosità. «In Lombardia, però, si verificano proteste da parte della Lega, che chiede di modificare questo criterio, e di guardare alla popolazione di stranieri già presenti in ogni regione». Proteste che cadono nel nulla. Tutto prosegue.
La vista sulla vallata, da Monte Campione, verso Artogne
«Per trovare sistemazioni veloci, ci si rivolge ai privati. E molti mettono a disposizione le loro proprietà». Nella sola Valle Camonica, ci sono «tre presidi: uno in Val Palòt, un piccolo nucleo di case in mezzo al bosco, Monte Campione e Còrteno Golgi». Nel primo caso in Val Palòt, si trattava di persone del Bangladesh: avevano a disposizione l’alloggio, ma solo quello. «Non c’era nessuna forma di assistenza. Nessun aiuto per farli telefonare, o interagire un minimo con il mondo». Tanto che «erano convinti di essere in Inghilterra». A Monte Campione, appunto, «si trovavano dispersi in alta montagna, quasi a sorpresa. Non avevano nemmeno i vestiti pesanti», mentre per le cure mediche «ci si doveva rivolgere al lavoro, immane, dei medici condotti di Artogne». Per passare il tempo, solo un campo di calcetto. E il sorgere e tramontare del sole, che si vede dalla cima della valle.
Ad agosto, la situazione si complica. Le promesse di trasferimento di volta in volta vengono eluse, e il clima, a Monte Campione, si agita. «Molti chiedono di uscire, e cercano di andarsene». A parte la strada da percorrere – senza mezzi (non c’è un sistema di trasporti) – c’è un problema ulteriore: se lasciano l’albergo per più di 72 ore, poi non possono più tornarci. E non hanno nessuna protezione legale. «Questo è quello che ho cercato di spiegare quel giorno», racconta Cominelli. E ricorda il momento, più difficile di tutti, in cui i rifugiati avevano deciso di abbandonare in massa l’albergo, trovandosi di fronte la polizia. «Dovevo intervenire e mediare, su ogni cosa». Insomma, la questione precipitava di giorno in giorno, e si doveva fare qualcosa.
Cosa? «Ci siamo rivolti alla Comunità montana. Che per noi è più rappresentativa e identitaria della provincia di Brescia». Come aggiungerà anche il sindaco di Artogne, alla base della Val Camonica c’è una tradizione e un senso di appartenenza antichissimo. «Ci danno mandato per discuterne in Provincia, e lo facciamo». E così, si coinvolge tutto il territorio, anche perché si riequilibra una situazione di disparità profonda: «i profughi erano in larghissima parte confinati in Val Camonica». Si procede alla creazione di un piano di redistribuzione, in piccoli gruppi, in tutta la provincia, in case e appartamenti per quattro, cinque persone. «Piccoli gruppi, più semplici da assorbire, in zone centrali, accessibili. Ma per svuotare Monte Campione ci è voluto molto tempo». E ora quella fase «è finita». Si opera sulla seconda, cioè l’accoglienza diffusa, secondo appunto i principi dello Sprar.
«Ad oggi, sono pochissimi che hanno un lavoro». Si parla di 20 persone che sono a buon punto «in un processo di autonomia economica». Su 114, non molte. Tra queste c’è Adam Hamed Mohamed, proveniente dal Sudan (in particolare dal Darfur) che ha quasi 40 anni, ma ha trovato lavoro a Edolo, vicino a Breno, sempre in Val Camonica. «Lavora in segheria, esce tardi ogni giorno, ma è felicissimo», racconta Isacco Moles, educatore, anche lui dello Sprar. «Mette da parte soldi, si paga un appartamento con altri due rifugiati, e cerca di incontrare la ragazza, che è rimasta in Sudan». Ma se la sua storia è finita bene, molte altre sono ancora da sistemare. «Il flusso di aiuti durerà ancora qualche mese. Almeno ad Aprile, ma poi?» si chiede.
Dello stesso parere è il sindaco di Artogne. «Il mio rammarico è di aver fatto il possibile, ma questo non è servito abbastanza». Colpa della crisi, che sta picchiando in modo pesante anche il paese di 2500 che amministra. «Il problema non è nella disponibilità delle persone. È che qui non c’è niente nemmeno per gli italiani». E se per qualche mese alcuni hanno lavorato per il Comune, come giardinieri e tuttofare, la cosa non è mai stata sufficiente. Anzi, ha sollevato critiche e lamentele: lo dice Fabio Cantoni, capogruppo della Lega al Comune di Artogne. «Senza protezioni, senza cautela. Erano pericolosi, non perché aggressivi, ma perché non erano al sicuro. Un incidente a loro danno sarebbe stato molto grave», spiega. Non ce ne sono stati, per loro fortuna.
In generale, conclude il sindaco, il momento «è infelice. Se qualcuno venisse da me e mi chiedesse di trovargli un lavoro, io non saprei come fare». Artogne si basa su turismo da un lato, e sull’allevamento di bestiame dall’altro. Antica e piccola insieme, «qui c’è tutto: come in un paese grosso, ma è minuscolo. E piccoli sono anche i suoi bilanci», irregimentati, anche loro, «dal patto di stabilità, che ci crea grossi problemi». Ma il problema è più ampio, e investe tutta la Val Camonica, «che pure può vantare il primo parco Unesco in Italia [quello delle incisioni rupestri dei Camuni, dichiarato patrimonio dell’umanità nel 1979], la più grande comunità montana d’Europa, con 42 comuni», ma si trova «a invidiare il vicino Trentino», sospira. Anche per questo, sostiene Cantoni, la Valle non perderà voti per Maroni e resterà in equilibrio rispetto alle ultime elezioni.
Nella crisi del tondino e del filato, la Valle ha poche energie, poche infrastrutture, sconta ritardi e distrazioni. La nostra «è una comunità dipesa da Brescia, ma mai difesa: il centro ha sempre sfruttato quello che avevamo. Dall’energia idroelettrica in poi». E tutto quello che non è gradito, o suscita problemi, «finisce qui». Come l’impianto per la inertizzazione dell’amianto a Gianico, progetto ora sospeso dopo una lunga protesta degli abitanti («consideri che qui la percentuale di tumore è altissima»). Oppure, come un numero impreciso di rifugiati e fuggiaschi dalle guerre africane. Confinati in una Valle in crisi, in cima alla montagna, al termine di una strada tortuosa che somiglia così tanto alla loro storia.