Cos’è stata davvero la dittatura argentina di Videla

Da quando Bergoglio è Papa è riesplosa l

Ventiquattro marzo 1976. Tutto finì all’una di notte, quando il generale José Rogelio Villareal disse a Isabel Martínez de Perón: «Signora, le Forze armante hanno preso il controllo politico del Paese. Lei è in arresto». O meglio, tutto cominciava. 
L’Argentina viveva nel caos: economico, politico, sociale. Nei primi mesi del 1976 a Buenos Aires ogni cinque ore si commetteva un assassinio politico, ogni tre esplodeva una bomba.
 Alla morte di Perón, due anni prima, il fronte peronista si era diviso: alla Casa Rosada e ai dialoghi con la moglie, succedutagli al potere, molti preferirono tornare alla guerriglia di strada, alla resistenza clandestina. E gli operai scendevano di nuovo in piazza a protestare contro le politiche economiche del governo. 
Insomma, anni di inflazione, crisi sindacale, violenza e ingovernabilità. Ma ciò che cominciava con quella fatidica nottata sarebbe stato di gran lunga peggiore.

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Il controllo del Paese fu assunto da una triade di comandanti: il tenente generale Jorge Rafael Videla, l’ammiraglio Emilio Eduardo Massera e il generale di brigata Orlando Agosti. 
Un controllo che significava, tra le altre cose, lo smembramento dei partiti politici e del Parlamento, l’annullamento di tutte le attività politiche e sindacali, la presa in carica della Corte di Giustizia, la censura, l’abolizione della libertà di stampa e di espressione. 
La dittatura militare avviò il cosiddetto «Proceso de reorganización nacional» che prevedeva l’installazione di un sistema economico neoliberista e l’allontanamento della «minaccia comunista» con la tortura e la sparizione di tutti gli oppositori politici.
 Fu il maggior genocidio nella storia del Paese: 30 mila desaparecidos e 500 bambini rubati, secondo le madri di Plaza de Mayo, 7/8 mila morti ammazzati secondo lo stesso Videla, che già nel 1977 aveva dichiarato: «In ogni guerra ci sono persone che sopravvivono, altre che rimangono invalide, altre che muoiono e altre che spariscono. L’Argentina è in guerra e la sparizione di alcune persone è una conseguenza non desiderata di questa guerra». Il terrorismo di stato occupava già gli scranni e il piano di sterminio era cominciato. Fin dal giorno dopo. L’Argentina non sarebbe stata più la stessa.

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Oggi Videla ha 87 anni, da ultracattolico recita il rosario tutti i giorni in una cella comune nella località di Marcos Paz, a 45 chilometri da Buenos Aires. Rimarrà in quel carcere, insieme a decine di ex militari condannati per violazioni contro i diritti umani, per il resto della sua vita. E da più di due anni a questa parte continua a confessare pubblicamente i suoi peccati. Ma anche i peccatori: al mantenimento del regime, fino al 1981, (Videla fu deposto dal generale Leopoldo Galtieri, a sua volta fatto cadere lo stesso anno da Roberto Eduardo Viola, che fu infine sostituito da Reynaldo Bignone nel 1982, l’ultima giunta militare prima del ritorno alla democrazia) parteciparono generali, burocrati, grandi imprenditori, la Banca centrale argentina, perfino la Chiesa cattolica. Furono il nunzio apostolico Pio Laghi, l’ex presidente della Conferenza episcopale Raul Primatesta e altri vescovi a fornire al suo governo consigli su come gestire la situazione dei detenuti-desaparecidos.
 Secondo Videla la Chiesa si spinse a «offrire i suoi buoni uffici» affinché il governo informasse della morte dei figli tutte le famiglie che si fossero impegnate a smettere di protestare. È la prova che la Chiesa era a conoscenza dei crimini della dittatura militare, come risulta dai documenti segreti pubblicati in libri e articoli e la cui autenticità l’Episcopato è stato costretto a riconoscere dinanzi alla giustizia. 


«È stata una guerra giusta, come diceva San Tommaso, una guerra difensiva. Non una guerra sporca», spiegava l’ex dittatore Jorge Rafael Videla in un’intervista recente. Una guerra finanziata da una parte dagli Stati Uniti di Kissinger, che diedero molti soldi alle organizzazioni paramilitari di destra per rovesciare il governo peronista a favore della giunta militare, con la quale ebbero sempre ottimi rapporti economici. E coperta dall’altra perfino dal castrismo di Cuba, secondo le dichiarazioni choc, nel 2011, rilasciate per la prima volta da un nipote di Guevara, Martín: la complicità tra Fidel Castro e Videla derivava dal fatto che fu la Giunta militare argentina a rompere il boicottaggio che gli Usa imposero al blocco sovietico, dopo l’invasione in Afghanistan, fornendo a Mosca un apporto alimentare.

Così Cuba non solo rimase zitta davanti ai crimini del governo Videla, ma diede appoggio diplomatico alla dittatura nei forum internazionali, per evitare che l’Argentina fosse condannata per violazione dei diritti umani. 
Il 10 dicembre del 1983 in Argentina torna la democrazia. 

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Ma ancora molti anni dopo Videla parlava, davanti a una nazione sconvolta, di «sentenze politiche» nei suoi confronti, «perché Cristina Kirchner e i suoi amici peronisti vogliono vedere solo in noi militari il male di quegli anni terribili, chiudendo gli occhi sui crimini del terrorismo di sinistra».

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