Di Paola, ammiraglio alpinista che affonda con la nave

Il ministro della Difesa e le ambizioni in Finmeccanica

«Sarebbe facile lasciare la poltrona, ma non sarebbe giusto. Non abbandonerò la nave in difficoltà con Massimiliano e Salvatore a bordo fino all’ultimo giorno di governo». Si fregia della metafora nautica, l’ammiraglio, prima che ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola. Il discorso pronunciato alla Camera ha assunto i tratti dell’arringa difensiva e, allo stesso tempo, quelli di guanto di sfida nei confronti del collega Terzi, dimissionario dopo aver riferito al Parlamento sul caso Marò.

L’ammiraglio resta al suo posto, rivendica la disciplina militare e si erge anti-Schettino, quasi impermeabile al pressing dell’opinione pubblica e all’eco internazionale della vicenda che da mesi sconquassa l’asse Italia-India. Dai social network ai forum web di area militare non si contano i messaggi di indignazione.

Solo qualche giorno fa, l’ammiraglio Giuseppe Lertora, fino al 2009 alla guida della Squadra Navale italiana, parlando di una «Caporetto mortificante», si diceva scettico sulle dimissioni del collega Di Paola per il semplice fatto che avrebbero richiamato «automaticamente quelle dei Capi di Stato Maggiore della Difesa e della Marina».

Sospeso tra le accuse di irresponsabilità e incompetenza, con la questione dei fucilieri il ministro Di Paola rischia di dilapidare l’ampio credito costruito negli anni grazie ad una carriera brillante, interamente specchiata nell’alveo delle forze armate. È lì che è avvenuta la sua ascesa, sin dall’ingresso all’Accademia Navale nel 1963. Moltissime le tappe: da Sottotenente di Vascello a Capitano di Corvetta, fino ad arrivare a Capitano di Fregata, Capitano di Vascello, Contrammiraglio, Ammiraglio di Prima Squadra.

Una carriera costellata di decorazioni (almeno 21 tra croci, medaglie, distintivi) e alti incarichi per il generale classe 1944, nativo di Torre Annunziata, appassionato di sci ed alpinismo. Lui, che parla fluentemente quattro lingue, ha fatto il capo del reparto politica militare dello Stato Maggiore Difesa dal 1994 al 1998, per poi approdare, all’alba della tredicesima legislatura, al dicastero di via XX Settembre dove Carlo Scognamiglio, ministro del governo D’Alema, lo volle come suo capo di gabinetto.

Gli avanzamenti di carriera proseguono negli anni successivi, prima con la nomina a Capo di Stato Maggiore della Difesa, poi con il prestigioso approdo alla presidenza del Comitato Militare della Nato, ruolo mantenuto fino al 17 novembre 2011, un giorno prima della sua chiamata al governo italiano.

Incluso nella squadra dei tecnici e preceduto da un curriculumin linea con quello dei “secchioni” scelti dal premier Monti, Di Paola apprese la notizia dell’incarico mentre era in visita ufficiale a Kabul. Militare e sobrio anche nella scelta delle vetture (una Mercedes Classe B e una Volkswagen Polo dichiarate nel documento di trasparenza), da ministro ha avuto a che fare con ben altri bolidi come gli F-35 che, insieme al riassetto delle forze armate, hanno occupato gran parte delle polemiche a lui contigue, prima che infuriasse il caso Marò.

Da un lato, Di Paola si è speso per il piano di ristrutturazione dell’elefantiaca struttura militare con riduzione del personale da 183 mila a 150 mila unità, compreso un taglio del 30% alla quota di ammiragli e generali. Dall’altro, si è trovato a mediare nella bufera politica creatasi intorno all’acquisto dei caccia americani, fino a chiudere la questione con l’annuncio di poche settimane fa, deciso a non ridimensionare ulteriormente gli ordini per gli F-35.

Nonostante gli incidenti di percorso, il profilo pubblico di Di Paola ha sempre viaggiato su alti livelli di gradimento, rispettato all’interno delle Forze Armate e osservato pure al di fuori dalle caserme, tanto che il suo nome è stato sussurrato da molti (Pd compreso) per la presidenza di Finmeccanica. Dopo l’arresto di Giuseppe Orsi e l’effetto domino che ha paralizzato il gioiello industriale italiano, sono stati in parecchi a tifare per un suo trasloco in Piazza Montegrappa. La caratura militare e internazionale di Di Paola riscuotevano il vivo apprezzamento di Napolitano, oltre a quello degli ambienti Nato, dove l’ammiraglio aveva intessuto una miriade di rapporti.

Poi l’epilogo sui Marò: due linee diverse, una diplomatica e l’altra muscolare, che hanno aumentato la complessità di rapporti tra il ministero degli Esteri e il dicastero della Difesa. Nel mezzo una solenne confusione tale da non garantire la protezione ai fucilieri Girone e La Torre rimasti ostaggio di due governi, italiano e indiano. Nel giorno della sofferta decisione del loro ritorno in India, i ben informati giurano che Di Paola «ha fatto il diavolo a quattro in consiglio dei ministri». Evidentemente non è bastato, o forse qualcosa era andato storto già prima. Molto prima, magari al momento della decisione della Enrica Lexie di attraccare a Kochi, gesto che sarebbe dovuto seguire ad un’intesa del comandante della nave con il ministero della Difesa.

Oggi, agli atti, restano le dimissioni del collega Terzi, la rabbia del mondo militare e, chissà, un posto in ballo a Finmeccanica. 

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