Non c’è dubbio: Papa Francesco sa stupire. Lo ha dimostrato ampiamente con i gesti dirompenti e significativi di questi primi giorni di pontificato. Lo ha confermato con l’omelia pronunciata martedì mattina, 19 marzo, in piazza San Pietro in occasione della messa d’inaugurazione del ministero petrino. Molti hanno messo l’accento sul tono ecologista del discorso del Pontefice. Giusto. Altri hanno preferito sottolineare quell’esortazione. «Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza». Molto simile, e che non ha nulla di banale o sdolcinato, al «Non abbiate paura» pronunciato nella stessa occasione da Giovanni Paolo II il 22 ottobre 1978.
Ma nel commentare la figura di San Giuseppe, «custode della Chiesa», papa Francesco si è soffermato a lungo sull’atto del custodire. Atto tipicamente umano ma che oggi, purtroppo, è drammaticamente ignorato e assai poco praticato con conseguenze devastanti. La straordinarietà di questo primo discorso del Pontefice sta nel fatto che non è un discorso confessionale: si tratta, invece, di un appello aperto a tutti gli uomini in quanto tali, al di là della loro fede religiosa. Perché, ha avvertito il Papa, «la vocazione del custodire non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti».
La riflessione prende spunto da libro biblico del Genesi (2, 15), dove si legge che Dio pose l’uomo nel giardino dell’Eden «affinché lo coltivasse e lo custodisse». Coltivare e custodire sarà poi, come ha spiegato il filosofo Silvano Petrosino in Capovolgimenti. La casa non è una tana, l’economia non è il business (Jaca Book), la definizione che Martin Heidegger darà dell’abitare umano nel saggio Costruire abitare pensare rifacendosi proprio al testo biblico. Attenzione: abitare non è solo coltivare e non è neanche solo custodire. I due atti vanno insieme, non possono essere separati. Ecco la sfida, difficilissima, da cogliere.
Papa Francesco ha detto chiaramente che il prendersi cura non riguarda solo la natura ma si estende a tutti gli ambiti della vita umana: gli affetti, la sessualità, il dolore. «È il custodire», ha detto il Papa, «l’intero creato, la bellezza del creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo. È il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. È l’aver cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori. È il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene».
Perché è arduo parlare oggi del custodire? In fondo, del coltivare abbiamo esperienze magnifiche: in ogni campo, dalla scienza alla tecnologia, dall’architettura all’ingegneria all’economia, le scoperte dell’ultimo secolo hanno semplificato la vita e migliorato l’esistenza di milioni di uomini in ogni parte del mondo. Ma è sufficiente? Non c’è il rischio che il coltivare da bene diventi un male, sfugga di mano, venga assolutizzato (pensiamo solo alle applicazioni nel campo della bioetica e alla pretesa di creare la vita in laboratorio e manipolarla in nome del business o alla deriva attuale dell’economia che insegue solo il profitto a tutti i costi) con la conseguenza di distruggere non solo il Creato ma anche la stessa dignità dell’essere umano?
«Quando l’uomo viene meno a questa responsabilità di custodire», spiega il Papa, «quando non ci prendiamo cura del creato e dei fratelli, allora trova spazio la distruzione e il cuore inaridisce. In ogni epoca della storia, purtroppo, ci sono degli “Erode” che tramano disegni di morte, distruggono e deturpano il volto dell’uomo e della donna».
Ma la riflessione del Papa suscita un’altra domanda cruciale: perché noi siamo più bravi a coltivare e non a custodire? Perché il custodire, nel quale ormai siamo diventati abilissimi, è più difficile rispetto al coltivare? Perché il custodire, come ha detto Papa Francesco con parole semplici ma profondissime, significa riconoscere il limite che l’uomo non può costruire tutto, che deve accettare un limite, perché si può custodire solo quello che non abbiamo fatto noi, che è ci è stato affidato e donato: «Siamo “custodi” della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente; non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo! Tutto è affidato alla custodia dell’uomo, ed è una responsabilità che ci riguarda tutti. Siate custodi dei doni di Dio!», ha detto il Papa rivolgendosi a tutti, a cominciare dai potenti della Terra.
Con toni umili, molto francescani, papa Francesco ha ricordato che custodire è difficilissimo perché richiede l’accettazione di questo limite, che l’uomo non può concepirsi mai come signore e padrone del Creato e che non solo la natura ma anche le memorie, le relazioni, gli affetti, la vita fragile, come può essere quella di un anziano o un disabile, o la vita che deve ancora vedere la luce, vanno difesi e custoditi. È un compito che non deriva solo dalla fede, ma dalla ragione che è universale. Un tema particolarmente caro anche al suo predecessore, Benedetto XVI. Alla faccia della discontinuità.