I 50 anni di Quentin Tarantino, il “regista dj”

Da un negozio di videocassette alla macchina da presa

«Quando la gente mi chiede se ho frequentato una scuola per fare film, io rispondo: no, sono andato a vedere i film». Così parlò Quentin Jerome Tarantino, 50 anni, ex commesso di videonoleggio, oggi regista-divo. L’unico che tutti riconoscono come un genere a sé. Un film di Tarantino è un film di Tarantino e basta. Un nome, una garanzia. Lo si va a vedere o non ci si va (ma succede di meno), perché tutti sanno cosa aspettarsi: violenza, sangue, morti ammazzati, storie contorte ma avvincenti, dialoghi memorabili, attori inquadrati dal basso, umorismo improbabile ma irresistibile, citazioni dai b movies, colonne sonore straripanti. E una discreta dose di foot fetish, per i più inconfessabile quanto l’amore per certi film di genere.

Tarantino è un regista letteralmente nutrito di cinema. Non è il primo. C’erano già stati, negli anni Cinquanta, i giovani turchi della critica francese: i Truffaut e Godard della Nouvelle Vague. In America, una dozzina d’anni dopo, i cinefili rivoluzionari della generazione di Coppola, De Palma, Spielberg e Scorsese, cresciuti nel buio della sala cinematografica. Con Tarantino, che entra in scena nella seconda metà degli anni Ottanta, c’è una differenza. Le videocassette. Per capire la bulimia creativa di Tarantino bisogna partire da loro. Dal negozio Video Archives di Manhattan Beach, vicino Los Angeles, dove il giovane Quentin lavorava per pagarsi le lezioni di recitazione (figlio di un attore, Tarantino coltivava lo stesso sogno. In tv lo si è visto fare una comparsata in una sit com, in un gruppo di imitatori di Elvis. Si è riservato una particina anche in Django Unchained).

Pare che il non ancora regista, assieme al collega Roger Avary (futuro sceneggiatore e regista a sua volta), spendesse gran parte delle ore di servizio a discutere della settima arte e di quali film consigliare ai clienti, facendo molta attenzione a quali erano le cassette più noleggiate. Risultato? Una conoscenza sterminata del cinema di mezzo mondo. E, altrettanto importante, la demolizione, nella mente di Quentin, delle barriere tra film di prima qualità e film di second’ordine. «Viva le cinema!», gridava dal palco di Cannes nel 2009, dove era presidente della giuria. Viva tutto il cinema. Fin dall’inizio, Tarantino ha scommesso sulla fusione tra cultura pop e gusto artistico indipendente. E ha vinto. Il pubblico è contento e in crescita. E i critici si dividono, ma riconoscono che la scommessa ha il suo fascino, ed è stata fatta al momento giusto.

Pensateci: negli anni Novanta i teorici del post-moderno, tra lo scetticismo su ogni forma di narrazione consolidata e la creazione di novità a partire dai frammenti del passato, hanno trovato in Tarantino il cineasta ideale. Un regista dj, come lo chiama Wikipedia. Lui, a dire il vero, dice di pensare i film seguendo una personalissima divisione tra due universi di storie: quello del “cinema cinema” e quello del “più reale del mondo reale”. Il primo universo è quello di opere come Kill Bill: il tipo di film che i personaggi del suo universo “più reale del mondo reale” andrebbero a vedere. Il secondo è fatto di film volutamente irrealistici. L’esempio più famoso è Pulp Fiction, ma nel gruppo ci sono anche Le Iene (Reservoir Dogs) e Death Proof.

In ogni caso, si arriva sempre a una caratteristica chiave: l’esagerazione. E, in particolare, l’esagerazione della violenza. Tutto quel sangue schizzato, tutti quei cadaveri ammucchiati per motivi quasi sempre futili. La sorella di Calvin Candie (Leonardo Di Caprio), in Django Unchained salta in aria sparata, e noi ridiamo. Stessa cosa per la bionda che infastidisce Robert De Niro in Jackie Brown. Perché? Ovvio che non è vero. Ovvio che stiamo scherzando. Cinismo, violenza e satira sono quasi la stessa cosa, nei film di Tarantino. Ma l’estetizzazione della violenza, diciamo la verità, ha un effetto liberatorio su una fetta enorme di pubblico.

E verso il pubblico, ci insegna la cultura pop, non conviene mai essere tanto moralisti. Non esistono modelli di comportamento per gli spettatori. Meglio diffidare di chi li propone. Lo sa bene chi ha bazzicato il Noir Festival del 1992 a Viareggio. Come il blogger Emmebi, al secolo Michele Boroni. Racconta Emmebi (in un post del 2009, anno di uscita di Bastardi Senza Gloria) che ad ogni proiezione assisteva un tipo strano, catalogato come “il matto”: «Un ragazzone americano vestito con bermuda , sneakers, t-shirt a tema musicale (ricordo perfettamente una maglietta con Queen Latifah e un’altra dei Beastie Boys) e un rapporto conflittuale con l’igiene personale, che non si perdeva niente, neanche la proiezione dell’oscuro polar belga degli anni Settanta. Il fatto è che le sue visioni erano rumorosissime: in sala mangiava e beveva di tutto, parlava da solo e gesticolava come un forsennato. All’inizio era divertente, poi però, alla lunga, era piuttosto stancante. (…) Non era arrogante, anzi quando veniva rimproverato, lui si scusava con strette di mano e inchini, salvo poi cinque minuti dopo riprendere a sbraitare come prima. E poi era entusiasta di tutto, non solo dei film».

Alla fine, era diventato la mascotte del festival: «Abbracciava, chiedeva autografi e parlava con tutti». L’ultimo giorno, il pubblico attendeva con curiosità il film di chiusura, Reservoir Dogs, diretto da un esordiente. A proiezione finita, dieci minuti di applausi. Viene chiamato sul palco l’autore: «Era in sala. In realtà non si era mai mosso da lì. Sale su sipario con un salto goffo, cantando e sbraitando come aveva sempre fatto per tutta la settimana. Il grido che lo accolse fu unico: “Noooooo, ma è il mattoooo!”. Qualcuno, perfino il sottoscritto, per un lungo attimo pensò che fosse tutto uno scherzo».

Tutte le inquadrature dal basso dei film di Tarantino

Tarantino balla sul red carpet

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Capito? Viva il cinema, viva Tarantino, che fa di tutto per piacere anche a persone che, di norma, non si appassionerebbero al cinema d’autore. E lo fa senza rinunciare alle sue idiosincrasie, che poi diventano la manna dei fissati del trivia, le curiosità sfiziose. Sapevate che c’è un riferimento all’Olanda in ogni suo film? E avete mai mangiato un Kahuna Burger, o un Acuna Boys Tex Mex Food? Impossibile, esistono sono nei film di Tarantino, che odia il product placement e ama inventare marchi immaginari.

A essere reali, invece, sono le canzoni che accompagnano ogni suo film. Tarantino ha ammesso di essere un grandioso consumatore di musica, con un debole per «il rock’n’roll anni Cinquanta (specie quello marchiato Sun Records), il soul della Chess e della Motown, le band del Merseybeat, il folk e il girl groups degli anni Sessanta». Ma non ha ancora spiegato perché in nessun suo film compaiono pezzi del suo album preferito: Blood On The Tracks di Bob Dylan. In compenso, ha una copia autografata di Erotica di Madonna. Gliel’ha spedita la stessa cantante, dopo aver sentito i dialoghi delle Iene sul significato di Like a Virgin. La dedica recita così: «To Quentin. It’s not about dick, it’s about love. Madonna» (A Quentin, non è per sesso, ma per amore. Madonna). Sì, l’amore – meglio: l’affetto – c’entra. Una intera generazione, quella dei trentenni di oggi, ha trovato in Tarantino un vasto bagaglio di canzoni da riscoprire e, soprattutto, scene da citare a memoria. È diventato un’icona familiare, da ritrovare in una scena dei Simpson o nei poster degli studenti universitari fuori sede. Forse abbiamo capito che, da Bastardi Senza Gloria in poi, lo stile si è assestato e non ci sarà da aspettarsi grandi novità in futuro. Ma c’è da giurare che, per molti, “il film di Tarantino” sarà un appuntamento fisso ancora a lungo. Anche se “il matto” ha superato la soglia dei cinquanta.  

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