Il rigore senza crescita finirà per soffocarci

Austerity, il dibattito tra gli economisti

Inflazione 1,8 %, disoccupazione 11,9%, crescita sotto zero nel 2012 e nel 2013. La Francia abbandona il pareggio del bilancio, almeno fino al 2017. L’Italia è in una recessione fuori controllo. In Spagna la metà dei giovani è fuori dal mercato del lavoro. «La disoccupazione è una tragedia immane», dice Mario Draghi. È la fotografia di un fallimento economico. E in tutto ciò, la Bundesbank lancia l’allarme contro l’eccesso di liquidità, ossessionata da un futuro aumento dei prezzi, mentre il presente è gramo anche in Germania dove un quinto dei lavoratori, secondo Eurostat, viene pagato con salari inferiori alla media. C’è una logica in questa follia?

La follia si chiama deflazione. La sua logica non è solo economica, ma politica: si basa su un intreccio tra convinzioni errate quanto radicate e interessi del complesso finanziario-industriale, alimentando un gioco di potere tra gruppi sociali e tra paesi. Il mercantilismo tedesco da un alto e quello cinese dall’altro spaccano l’Europa e l’Asia, minacciano gli Stati Uniti. Dunque, anche le conseguenze non possono che essere economiche, sociali e politiche. L’Italia avrà eletto due clown, ma fa vacillare l’Europa e il mondo intero. È suonata nel terzo paese dell’Eurolandia la campana a morto per l’austerità. Non ha funzionato. Inutile negarlo, molto più fruttuoso è cercare perché.

Paul Krugman sostiene da tempo che era un’idiozia in sé. La riduzione dei debiti è un falso obiettivo, pareggiare il bilancio quando l’economia non cresce, è un suicidio. Altri la mettono giù in modo diverso. Per Kenneth Rogoff comunque il debito degli stati, oltre la soglia del 90%, fa scendere il pil di almeno un punto percentuale. Il liberal Jeffrey Sachs vuole superare sia Friederich von Hayek (che ha fallito con la grande crisi) sia John Maynard Keynes (che in una economia globale non funziona più). Intanto, la Gran Bretagna si è staccata del tutto dal vagone dell’euro: la Bank of England stampa moneta e svaluta la sterlina per ridare slancio alla congiuntura. Lo stesso avviene in Giappone. Mentre da Washington, dove Casa Bianca e Congresso recitano un nuovo psicodramma politico sulla politica fiscale, la Federal Reserve di Ben Bernanke apprezza. La crusca del diavolo non è la moneta, ma la scarsità di moneta.

Adair Turner, pari d’Inghilterra, presidente della Financial Service Authority, cita il Faust di Goethe ricordando come Mefistofele arriva alla conclusione che c’è stata troppa deflazione austerità per mancanza di moneta. C’è abbondanza di oro e argento sotto terra, quindi l’imperatore non deve far altro che stampare carta che ha come garanzia il tesoro metallico sotterraneo. Un sottostante, alla lettera. Così tutti sono contenti, “il generale perché i loro soldati vengono pagati, il tesoriere perché può ripagare i debiti, si sarti che possono fare altri vestiti, le signore che possono imbarcarsi in ben pagate avventure romantiche”. Ebbene, “cosa c’è di male in tutto ciò?”, chiede lord Turner.

La demolizione dei vecchi tabù, insomma, è cominciata. Il dogma, dagli anni ’80 in poi, è che una crescita equilibrata e continua richiede come requisito una inflazione non solo stabile, ma più bassa possibile. Il primo a sparare sul quartier generale dell’ortodossia è stato Olivier Blanchard, capo economista del Fondo monetario internazionale che nel febbraio 2010 ha pubblicato un paper scritto insieme a due suoi collaboratori italiani, Giovanni Dell’Ariccia e Paolo Mauro, nel quale rimette in discussione l’intero paradigma che ha guidato il vecchio Washington consensus. Vediamo in sintesi, semplificando al massimo, i punti salienti.

Prima della crisi, scrivono i tre economisti, si pensava che la politica monetaria avesse come bersaglio l’inflazione e come strumento i tassi di interesse. L’ideale, scelto come parametro-obiettivo delle banche centrali, era un aumento annuo dei prezzi inferiore al 2%. La politica fiscale giocava un ruolo secondario, anzi talvolta negativo perché le strettoie della politica la rendeva de facto inutile. Banche e finanza, strumenti di intermediazione della moneta, non avevano implicazioni macroeconomiche, quanto meno a livello di sistema. Era questa l’architettura della “Grande Moderazione” che sembrava aver allontanato il rischio di una crisi generale. Poi è arrivato il 2008, al quale le banche centrali hanno reagito con misure straordinarie, tassi a zero, aumento della liquidità, interventi diretti sul mercato. Lo hanno fatto tutte, anche la Bce, sia pure in forme diverse. Ma la risposta alla crisi ha riportato al centro anche la vecchia politica fiscale, con tanto di deficit spending. Sono peggiorati i deficit e i debiti.
Nell’un caso e nell’altro, è venuta a galla la necessità di avere “spazi di manovra” sufficienti per la politica monetaria (soprattutto in termini di tassi d’interesse) e per quella di bilancio (tasse e spese). Ed ecco emergere le due questioni che fanno ancora scandalo: l’inflazione e l’austerità.

Sul primo punto la conclusione di Blanchard è netta: “Perché i costi di una inflazione più alta, dichiamo al 4%, sarebbero maggiori? E’ davvero più difficile ancorare le aspettative al 4 che al 2%”. Evidentemente no, l’obiettivo fin qui scelto non ha senso e riduce gli spazi di manovra. Certo, “l’inflazione è una tassa distorcente, ma non lo sono anche le altre tasse?”. Il problema allora è neutralizzarne gli effetti (senza indicizzare l’intera economia a cominciare dai salari), non spegnere quello che sembra il carburante della crescita. “Una moderata inflazione aiuterebbe ad abbattere i rilevanti debiti pubblici accumulati in questi anni da diversi paesi”, ha detto il 6 febbraio Adair Turner, presentando alla Cass Business School dell’Università di Londra un suo studio intitolato “Debt, money and Mephistopheles: how do we get out of this mess?”.

Quanto all’austerità, molte delle acquisizioni del vecchio paradigma restano valide. Per esempio è chiaro che bisogna mettere in ordine il bilancio, portarlo in pareggio o anche in surplus per poterlo poi usare. Ma non va fatto in mezzo a una crisi di carattere generale. Un punto sul quale concorda, in Italia, un monetarista pragmatico come Alessandro Penati. Non basta. La globalizzazione e i cambiamenti avvenuti nella struttura economica dei paesi industrializzati ha cambiato i parametri di quel che si chiama “acceleratore fiscale”, cioè come il prodotto lordo reagisce ai tagli e alle tasse. E qui Blanchard ha lanciato la sua seconda provocazione che sta scuotendo il dibattito teorico e anche quello politico. 

Ci siamo sbagliati, ha detto in sostanza. Finora, la maggior parte dei modelli utilizzati dalle istituzioni internazionali (anche quello della Commissione europea, su cui sono basati i programmi di aggiustamento dei Paesi in difficoltà e le previsioni di crescita) indicava il moltiplicatore fiscale a 0,5: cioè a ogni punto percentuale di taglio del deficit corrisponderebbe mezzo punto di minor crescita. Secondo i nuovi calcoli del Fmi, realizzati sulla base di dati per 28 economie dallo scoppio della crisi del 2008 a oggi, il moltiplicatore si collocherebbe in realtà fra lo 0,9 e l’1,7. A ogni riduzione del deficit dell’1% del prodotto interno lordo segue quindi una minor crescita nella migliore delle ipotesi quasi equivalente o nella peggiore molto superiore. 

Insomma, gli effetti negativi dei tagli nel breve termine sono stati maggiori del previsto perché i moltiplicatori fiscali sono stati sottostimati. Il rischio è quindi quello di innescare una spirale negativa fra tagli fiscali e recessione. I nuovi risultati sono probabilmente influenzati dal fatto che viviamo un momento economico, dopo la Grande Recessione, in cui i tassi d’interesse sono già vicini allo zero (la politica monetaria non può quindi compensare la restrizione di bilancio), ci sono già ampie risorse inutilizzate (evidenziate tra l’altro dall’alta disoccupazione) e la stretta è sincronizzata fra diversi Paesi.

Non solo, va rimesso in discussione anche un caposaldo del vecchio Washington consensus, cioè che la risposta alla crisi debba passare per politiche dell’offerta basate su riforme strutturali dei mercati all’insegna delle privatizzazioni. Il Fmi sostiene che le riforme restano una ricetta sempre valida, ma riconosce quel che era già evidente a chi le mette in pratica: i loro primi effetti benefici si vedono dopo tre anni e bisogna attenderne almeno cinque per avere un impatto significativo sul prodotto lordo. E nel frattempo? Beh, bisogna accompagnare le riforme con un aumento della domanda. Lo studio dell’anno scorso su tutta l’Europa (IMF, European Department, Fostering Growth in Europe Now, Prepared by Bergljot Barkbu, Jesmin Rahman, Rodrigo Valdés, and a staff team, June 18, 2012) e quello di quest’anno sull’Italia curato da Lucine Lusinyan e Dirk Muir del desk italiano, mettono in discussione l’impostazione seguita dal governo Monti, ma anche quella teorizzata più volte dall’agenda Giavazzi. Riforme sì, ma intanto bisogna rimettere in moto la crescita. Cade così un altro dogma. 

Lord Turner arriva a due conclusioni pratiche: «1) nella fase deflazionistica e discendente del ciclo economico, dobbiamo essere più rilassati nella creazione, sia pur controllata, di base monetaria; 2) una volta avviata la ripresa, dobbiamo essere molto più preoccupati di quanto non siamo stati prima della crisi, sulla eccessiva creazione di debito e moneta privata; e dobbiamo fidarci meno della possibilità di usare di nuovo il debito per uscire dal casino (lui usa mess, in termini colloquiali possiamo tradurla proprio così) nel quale l’eccesso di debiti ci ha fatto precipitare». Due rinfrescanti regole di condotta. In attesa di un nuovo Washington consensus, evviva il buon senso, il quale, come scriveva Alessandro Manzoni, esiste sempre, ma spesso sta nascosto per paura del senso comune.
 

X