«Ma se mi toccano dov’è il mio debole, sarò una vipera sarò, e cento trappole prima di cedere farò giocar», canta Rosina nel Barbiere di Siviglia. E un po’ così erano i soldati napoleonici entrati in Italia nell’aprile del 1796. Si aspettavano di essere accolti – loro, i portatori del verbo rivoluzionario e della civiltà vera – a braccia aperte dalla popolazione. La reazione delle truppe austriache l’avevano messa in conto, ma quando si ritrovavano di fronte a resistenze da parte degli italiani andavano via di testa e reagivano seminando il terrore. Accade a Pavia e nella non lontana Binasco, messe a ferro e fuoco: a Binasco si contano oltre cento vittime, ai soldati vien concesso il diritto di saccheggio e di stupro, la cittadina brucia per tre giorni di fila. Accade con Verona che insorge contro i napoleonici il 17 aprile 1797, il lunedì di Pasqua.
Piccola digressione: il residente veneziano a Milano, Giovanni Vincenzo Foscarini, nei peraltro dettagliatissimi dispacci che manda al senato della Serenissima, sembra non accorgersi di nulla: il 5 giugno 1796 riferisce dell’esecuzione «di un soldato francese fucilato per aver rubato de’ vasi sacri nella chiesa di Pavia che le furono restituiti» e non dice che i francesi hanno ammazzato cento persone a due passi da lì e saccheggiato, per esempio, il tesoro di Teodolinda nel duomo di Monza, corona ferrea compresa.
Napoleone nel primo anno della campagna d’Italia, mantiene un atteggiamento ambiguo verso la Repubblica veneta, ne viola la neutralità, con la motivazione ufficiale di inseguire gli austriaci (che godevano di un corridoio di passaggio lungo il Garda per transitare dal Tirolo alla Lombardia asburgica), ma vorrebbe anche allearsi a Venezia per inglobare nelle sue truppe un paio di reggimenti dei valorosi schiavoni dalmati (segno che si rendeva conto delle debolezze delle sue truppe, meno invincibili di quanto non dessero a intendere). Il 1° giugno 1796 i francesi occupano Verona, ufficialmente sono ospiti, nella realtà invasori.
Intanto i napoleonici si occupano di “democratizzare” Bergamo e Brescia, già città della Serenissima, con relative insurrezioni antifrancesi: Val Trompia, Val Sabbia e sponda occidentale del Garda. Il 22 marzo 1797 arriva a Verona dalla ormai perduta Brescia il provveditore veneto Francesco Battaia, un uomo pavido, il cui unico fine sembra quello di evitare scontri armati tra le truppe della Serenissima e i francesi.
Intanto nella città scaligera la tensione tra soldati veneti e francesi è altissima. Il nerbo delle truppe del leone di San Marco è costituito dagli ottimi schiavoni dalmati, che sono tutti bilingui e quindi perfettamente in grado di capire i racconti in croato dei feriti e dei prigionieri austriaci. Il nerbo delle truppe austriache, infatti, è costituito da croati, uniti ai dalmati dalla conoscenza linguistica. Chiaro, quindi, che tra i dalmati veneti monta il sentimento antifrancese. A Verona, comunque, la situazione è tesissima: francesi e giacobini locali si comportano da padroni, ignorando totalmente l’amministrazione veneta. Napoleone, che sicuramente sa fare la guerra, si rende conto dell’importanza strategica del luogo e di quanto sia importante controllarlo.
Come un fiammifero nel bidone di benzina giunge il manifesto, affisso nella notte tra il 16 e il 17 aprile, a firma Francesco Battaia, che incita la popolazione veronese alla rivolta. Ormai è chiaro che quel manifesto era un falso, probabilmente preparato dai giacobini locali. Serviva un pretesto per far scorrere il sangue e permettere ai francesi di impadronirsi militarmente della città: Verona era una polveriera pronta a esplodere e il 17 aprile, esplode. Durante il giorno si scatenano varie risse, i primi colpi d’arma da fuoco di odono quando un dalmata ha la meglio su un francese. Verso le cinque di pomeriggio i napoleonici aprono il fuoco con i cannoni, da castel San Felice e castel San Pietro sparano verso il centro cittadino. Le truppe francesi si fanno largo a baionettate, mentre quelle venete, senza ordini, non sanno cosa fare. I popolani armati scatenano la caccia al francese e ne ammazzano quanti riescono.
MAPPA DELLA SERENISSIMA (Clicca sull’immagine per ingrandire)
Il conte Francesco Emilei, comandante della cernida veronese (in termini moderni li diremmo “territoriali”) si dirige verso la città per dare man forte, mentre i rappresentanti del governo veneto, Giuseppe Giovannelli e Alvise Contarini, intavolano trattative con il comandante francese per ristabilire la neutralità. Si giunge a una tregua poco rispettata che al generale Antoine Balland interessava solo per dar tempo ai rinforzi di avvicinarsi. Il giorno dopo, 18 aprile, i provveditori veneziani fuggono a Vicenza, mentre alcuni comandanti militari si scapicollano a Venezia per chiedere un intervento militare (sia chiaro: la Serenissima avrebbe avuto, se avesse voluto, truppe ed equipaggiamento per resistere almeno un po’ ai francesi). Nel frattempo i popolani in armi continuano a dare la caccia ai napoleonici, mentre i prigionieri austriaci liberati si organizzano in reparti militari. Il conte bassanese Augusto Verità si mette a capo di 200 ex priginieri austriaci. L’obiettivo degli insorti è conquistare Castel Vecchio, dove i francesi si sono asserragliati. Questi ultimi alzano bandiera bianca, fingono di arrendersi e aprano il fuoco sulla delegazione venuta a parlamentare. Dal contado continua ad affluire gente che si unisce agli insorti.
Intanto arriva in città il colonnello austriaco Adam Adalbert von Neipperg che informa il generale Balland delle trattative di Leoben tra impero e repubblica francese. La popolazione non lo sa, ma a questo punto da parte asburgica non sarebbe giunto alcun aiuto, così come nessun soldato sarebbe arrivato da Venezia: la delegazione veronese rientra a mani vuote. Tornano invece in città i provveditori che intavolano nuove trattative con Balland. Intanto le artiglierie francesi continuano a martellare il centro cittadino.
Il 19 è chiaro che altro non resta ai veronesi, se non la difesa a oltranza. La battaglia continua con qualche progresso degli insorti (prendono i cannoni di Castel Vecchio che finalmente restano muti) mentre Neipperg se ne va con i soldati asburgici per rispettare la tregua tra Francia e Austria. Il 21 aprile i rinforzi francesi passano l’Adige e ormai la situazione è chiara: Verona è circondata da 15 mila nemici, e nonostante la determinazione degli schiavoni e i rinforzi arrivati da Vicenza, il destino dell’insurrezione è segnato.
Cominciano a scarseggiare viveri e munizioni. Dal Senato veneziano giunge una lettera che invita ad arrendersi, la situazione è disperata e si decide di abbassare le armi. Il 23 aprile viene concessa una tregua di 24 ore, fino a mezzogiorno del giorno seguente. Le perdite francesi ammontano a circa 500 morti, un migliaio di feriti e 2.400 prigionieri (500 soldati e 1.900 familiari: al tempo era prassi comune portarsi al campo mogli, figli e amanti). Non si conoscono le vittime da parte degi insorti.
Il 24 si aprono le trattative di resa, che trattative non sono: i francesi impongono le loro condizioni. Le Pasque veronesi sono finite. La cavalleria veneta deve scortare, appiedata e disarmata, i napoleonici che rientrano in città. I provveditori veneziani fuggono di nuovo. I francesi danno il via al saccheggio: il Monte di pietà viene svuotato, ma spariscono anche quadri, oggetti d’arte, manoscritti medievali da chiese e biblioteche. Quasi nulla sarà restituito: alcuni dei Veronese e dei Tiziano che si ammirano ancor oggi al Louvre provengono da quel bottino. I privati cittadini sono costretti a versare oro e argento ai francesi.
Il 9 maggio vengono liberati i contadini dei territori circostanti e arrestati i capi della rivolta, tra cui parecchi aristocratici e alcuni religiosi, vescovo compreso. Il 16 maggio ne vengono fucilati quattro e i soldati che fanno parte del plotone di esecuzione, dopo averli ammazzati, vanno alle loro case per saccheggiarle. Nei giorni successivi saranno eseguite altre condanne a morte e contineranno i saccheggi. Verona è occupata ed entro pochi giorni sarebbe venuto il turno di Venezia. Il 12 maggio 1797, il Maggior consiglio (pur non in numero legale) vota la fine della millenaria Repubblica veneta.